Avatar, la recensione di Andrea Bedeschi

La seconda recensione ufficiale di Avatar di James Cameron, firmata Andrea Bedeschi.

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Prescindendo da ogni eventuale considerazione sulla mole spopositata di soldi che ogni volta viene mossa da James Cameron, tanto a livello produttivo, quanto coi successivi incassi dei suoi film, è l'impatto operato dalle sue pellicole sull'immaginario collettivo, compreso quello di altri autori, ad essere fuori misura. Avatar, essendo il risultato di una storia elaborata quando ancora la tecnica degli effetti speciali non consentiva di dare forma al tutto, si è ritrovato ad essere un sorvegliato speciale fin da quando, 14 anni fa mese più mese meno, Cameron dichiarò di voler realizzare una pellicola basata sull'utilizzo di personaggi sintetici. Il titolo scelto dal filmaker canadese, Avatar, riprende già il concetto di "discesa" nel momento stesso del suo manifestarsi, in 2D, in 3D o imax, su uno schermo cinematografico: la promessa di Cameron di cambiare per sempre le sorti, quantomeno quelle tecnologiche, della settima arte si sono quindi manifestate, così come le divinità che, secondo la religione induista, scendono sulla terra incarnandosi in un corpo fisico per svolgere determinati compiti. Finalmente, passata la sbornia natalizia a base di cinepanettone e annesso becerume, il pubblico italiano può toccare con mano, pardòn, con occhi l'effettiva portata di tale cambiamento. La trama del film è estremamente lineare e, oramai, nota a tutti: in un futuro in cui la Terra è afflitta dalla crisi energetica, la chiave per la risoluzione dei problemi del nostro pianeta, un minerale chiamato unobtanium, si trova sulla luna Pandora, un corpo celeste selvaggio e ostile abitato da una razza d'indigeni umanoidi molto alti e dalle sembianze feline chiamati Na'vi. Jake Sully è un marine costretto su una sedia a rotelle che viene adoperato per rimpiazzare il suo fratello gemello, prematuramente scomparso, nel progetto Avatar. Questo consiste nel trasferire le coscienze all'interno del corpo di un Na'vi creato in laboratorio, per potersi così muovere liberamente sulla supercifice della luna, la cui atmosfera è altamente tossica per l'uomo. L'incontro con la cultura dei Na'vi, civiltà profondamente interconnessa, in armonia con la natura e adoratrice di una divinità chiamata Eywa, cambierà per sempre la vita di Jake che si troverà a lottare contro i suoi simili, gli umani, le cui motivazioni sono ormai dettate solo da logiche capitalistiche e imperialistiche.

Cambiare il cinema?

Molto spesso, occasioni come quella di Avatar, diventano circostanze per delle gare in cui i critici fanno a gara a chi la spara più grossa, con paragoni robanti e, magari, un tantino esasperati. Certo è che quando un signore chiamato Steven Spielberg all'uscita della premiere americana del film dichiara ai giornalisti che Avatar "è il film di sci-fi più evocativo dai tempi di Star Wars", forse è il caso di fermarsi un attimo a riflettere. Mettendo per un attimo da parte il nodo "trama", su cui ci soffermeremo tra un po', le evenienze che hanno portato alla creazione dei due film sono differenti. Fermo restando l'innovazione introdotta dalla macchina da presa stereoscopica adoperata per Avatar e dalla sofisticatissima telecamera che ha consentito al regista di vedere direttamente sul monitor la controparte digitale dell'attore mentre lo filmava, James Cameron ha potuto fare affidamento su anni e anni di esperienza, di Oscar e, last but not least, di garanzie sul rientro economico dei suoi lavori. Lucas, ai tempi del primo Star Wars, dovette fare di necessità virtù, impegnando tutti i soldi che aveva guadagnato con American Graffiti e, se avesse fallito, sarebbero stati dei grossi, grossissimi problemi per lui. Il che è una differenza non da poco che nessuno ha ricordato di sottolineare. Sia ben chiaro, non vogliamo assolutamente sminuire la portata d'innovazione tecnologica di Avatar. Vogliamo solo dire che se si vuole paragonare il film di Cameron a quello di Lucas, sarebbe anche più onesto ricordare il differente background economico delle due produzioni.
Ciò detto, è risaputo che diverse voci, pur lodando l'apparato scenotecnico di Avatar, hanno sottolineato come il punto più debole dell'intera baracca sia costituito dalla trama, ritenuta troppo debole rispetto alla grandiosità della messa in scena. Questa accusa è vera, ma anche qua vanno operate dei doverosi aut aut. Tutti i film di Cameron hanno una storia semplice e non particolarmente complessa alla base. Avatar, in questo, non fa eccezione. Le complicazioni nascono dal fatto che film come Terminator 1&2 o Aliens, sono stati degli apripista tanto tecnologici, quanto iconografici, per così dire. Sottolineare l'influenza dei due capitoli della saga di Skynet sulla cinematografia mondiale sarebbe ovvio. Analogamente, e non ce ne voglia per questo Sir Ridley Scott, il moderno archetipo della donna guerriero rappresentato da Ellen Ripley non nasce col primo Alien, dove si trattava di lottare per la propria sopravvivenza, ma con Aliens di James Cameron in cui le istanze matriarcali della donna che combatte per la sopravvivenza non solo di se stessa, ma anche della prole e della specie, vengono magnificamente esemplificate dallo scontro con la Mother Alien. Discorso che verrà poi ampliato in Terminator 2 (come ho già avuto modo di esporvi nella recensione del film).
Avatar, paga quindi pegno non tanto a causa della linearità e accessibilità della trama, quanto per il fatto che i rimandi tanto temuti a Balla coi Lupi e a New World, sono effettivamente molto marcati. E' forse il primo film di Cameron a subire delle forti influenze da parte di altre storie già conosciute dal pubblico. Senza contare poi che per molti versi, il film presenta delle peculiarità, specie a livello di caratterizzazione dei personaggi, che sembrano uscite prepotentemente dallo sci-fi anni 80, quella stessa fantascienza che, in larga parte, è stata plasmata dallo stesso James Cameron. In via del tutto ineluttabile, questo ripiegarsi su se stessi, aumenta la sensazione di deja-vu, acuito dal fatto che molti degli stilemi cameroniani, il militarismo, la connessione uomo-robot d'assalto, il rapporto con l'ambiente ostile, sono stati ripresi in vario modo da anni e anni di produzioni videoludiche (chi ci segue da un po', saprà di certo che il sottoscritto è tutto tranne che un estimatore della saga di Halo, tuttavia l'apparato bellico e certe scelte di regia di Avatar sembrano uscite fuori dagli studi Bungie).
Si potrebbe obbiettare a ciò, affermando che lo stesso Titanic poggiava le sue fondamenta su una storia dozzinale (la più ovvia delle storie di amore fra lui bello-ma-povero e lei bella-ma-ricca), oltretutto posta sullo sfondo di una triste nota di storia realmente accaduta. Ma l'undici volte premio Oscar Titanic, recuperava in pieno quel concetto di hubris, di tracotanza dell'uomo che, tramite la tecnologia, pretende di superare i propri limiti andando inevitabilmente incontro alla morte. In Avatar tutto questo è assente o, quantomeno, è subordinato all'opulenza di quello che ci passa di fronte agli occhi. Se in tutti suoi lavori Cameron ha sempre subordinato la tecnica e la tecnologia a disposizione, mettendoli al servizio della narrazione e di un messaggio che poneva sempre l'uomo al centro del tutto, dispiace constatare come in Avatar il processo si sia invertito: tutto pare un enorme benchmark delle possibilità del nuovo cinema e, anche in questo, il paragone con il ben più chiuso e completo Star Wars, appare improbo. L'ecologismo infarcito di new age, non basta a capovolgere una situazione in cui per la prima volta gli effetti speciali diventano quasi una tech-demo, piuttosto che un mezzo per veicolare un messaggio.
Tuttavia, proprio come in New World di Terrence Malick, a colpire profondamente l'occhio dello spettatore, è la fascinazione estetica con cui lo sguardo di Cameron ci guida su Pandora, un pianeta che vibra di vita nonostante sia il frutto di un insieme di bit e byte. Quando Jake Sully, nel suo Avatar esplora per la prima volta l'habitat di Pandora, è impossibile non rimanere stupiti per quanto ci ritroviamo a vedere grazie a lui: un ambiente attraversato da un'energia che lega tutte le creature che lo abitano grazie ad un legame che fa del contatto e della vista i suoi elementi precipui. Richard Taylor, nei conferire alla popolazione indigena un sostrato storico credibile, adopera tutto il know-how maturato negli anni passati a portare in vita le popolazioni della Terra di Mezzo; i Na'vi, piuttosto che degli umanoidi felini in motion capture, potrebbero saltare fuori da un documentario di Discovery Channel, piuttosto che da un film di fiction dato che i loro costumi, la loro religione paiono affondare le radici nel tempo e nella storia.
Il tanto propagandato 3D, dopo l'impatto iniziale, passa del tutto in secondo piano, confermando in toto il (personale) scetticismo a riguardo. La concretezza di Pandora colpisce a prescindere dalla profondità di campo data dalla tridimensionalità, anche se, va specificato, la visione alla base di questa seconda review di Avatar è frutto del Digital 3D e dei soliti (e ben noti) problemi di abbassamento della luminosità dell'immagine. Chiaramente, e su questo c'erano pochi dubbi in merito, la regia di Cameron dovrebbe essere presa come manuale da gente come Michael Bay and co. per imparare come si girano scene d'azione degne di tal nome. Malgrado i timori iniziali dati mesi fa dal primo trailer in cui i Na'vi sembravano un po' troppo posticci, la sospensione dell'incredulità è garantita da una realizzazione tecnica allo stato dell'arte. Le prove attoriali del cast, Sam Worthington, Zoe Saldana, della ritrovata Sigourney "Ellen Ripley" Waever e Joel David Moore (che passa da Dodgeball a Avatar), sono eccelse e non perdono neanche un briciolo d'intensità nel passaggio a character di sintesi. In un film dove gli umani sono (novità delle novità), cattivi, imperialisti e capitalisti, le migliori prerogative sono date da delle maschere, Jake Sully in primis, con le quali è impossibile non entrare in empatia, anche se il Colonnello Miles Quaritch di Stephen Lang sembra il più trito e ritrito lacerto da action movie degli anni di Reagan. Nulla di particolarmente esaltante sul fronte dello score musicale di James Horner, che non riesce a ripetere le incisive note delle musiche composte per Titanic.

Avatar Dato il titolo e l'iter narrativo scelti da James Cameron, è quasi inevitabile per un sito come Everyeye proseguire nell'allegoria videoludica nel momento in cui si tratta di tracciare le somme per un film come Avatar. E per porsi di fronte a questa pellicola, verrebbe quasi voglia di adoperare un metro di giudizio bipartito come quello adoperato nei videogiochi in cui il comparto tecnico è ben distinto da quello che inerisce la fruizione del prodotto da parte dell'utenza. Tecnicamente parlando, Avatar segna un'effettiva svolta nel cinema, sull'integrazione di elementi reali con altri frutto solo ed esclusivamente del cervello dei computer e dell'estro artistico di chi quei computer li adopera, ed è un overflow di fastosità che colpisce duro (in senso positivo) l'occhio dello spettatore. Ma contenutisticamente, il film cede di fronte ad altri lavori dello stesso Cameron. Viene da pensare ad un di quei hypizzatissimi giochi Tripla A, attesi per anni e anni che, appena, usciti fanno registrare record di vendite e fanno balzare in alto le medie aggregate di Metacritic, solo per essere dimenticati nel momento in cui un altro titolo ancora più fastoso e hypizzato si affaccia sugli scaffali. Tutti, a distanza di quasi 20 anni, si ricordano di Terminator 2 per il notevole impatto avuto: impatto che trascende i record d'incassi registrati all'epoca e gli avveniristici effetti di morphing. Sarà così anche per Avatar? Questo, ovviamente, sarà solo la storia a dirlo. Ciò nonostante, permetteteci di essere almeno un po' scettici a riguardo

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