Autopsy: la recensione

Brian Cox ed Emile Hirsch si trovano in Autopsy alle prese con un cadavere di donna tanto morto quanto capace di trascinarli in una spirale di terrore.

Autopsy: la recensione
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"All'inizio mi hanno buttato lì giusto un paio di righe: due medici legali, padre e figlio, cominciano a lavorare su un cadavere per un'autopsia, piano piano scoprono dei segreti e nella camera mortuaria iniziano ad accadere cose strane". Il produttore Eric Garcia ricorda così il momento in cui, in un ristorante indiano losangelino, gli sceneggiatori Richard Naing e Ian Goldberg gli cominciarono a parlare di Autopsy, primo lungometraggio in lingua inglese diretto dal norvegese André Øvredal, regista nel 2010 del found footage in salsa fantastica Trollhunter. Lungometraggio intento ad affrontare attraverso il genere horror i problemi irrisolti tra un padre ed un figlio che vengono allo scoperto in una situazione carica di tensione. Perché, gestori di un obitorio in Virginia, i protagonisti Brian Cox ed Emile Hirsch si ritrovano ad avere a che fare con qualcosa di sinistro dal momento in cui lo sceriffo del posto gli consegna il cadavere di una donna sconosciuta ritrovato in un seminterrato a seguito di un pluriomicidio.

Non aprite quella morta

Cadavere che decidono di chiamare Jane Doe e che non solo scoprono aver subito un trauma vaginale ed essere caratterizzato dalla lingua recisa e dall'articolazione distrutta, ma anche che, perfettamente conservato all'esterno, sembra essere stato vittima di un orribile e misterioso rituale di tortura internamente, smembrato e manifestante segni di cicatrici e bruciature. Autopsy può contare su una prima parte che, tra torace aperto ed asportazione di organi, trasmette efficacemente quasi il disgusto tipico di un certo cinema underground di solito distante dagli orrori a stelle e strisce per teen-ager, rendendo giustizia all'idea dei citati Garcia e Berger di dare al tutto un tocco europeo che non lo facesse apparire un classico prodotto di paura made in USA. Prima parte, quindi, piuttosto splatter e che fa da preludio ad una seconda in cui, invece, ad essere favorito è l'accrescimento progressivo della tensione e del mistero, entrambi conferiti dalla sensazione che qualcosa di sinistro stia accadendo attorno ai due protagonisti e che qualcuno si stia aggirando negli angoli più bui della struttura in cui si trovano. Perché, come vuole una determinata tradizione legata alla celluloide indipendente dell'orrore d'inizio XXI secolo, è una unica, claustrofobica location al chiuso a fare da scenografia alla oltre ora e venti di visione. E, sebbene i balzi dalla poltrona cercati tramite il ricorso al consueto aumento improvviso del volume dell'audio e gli altri tentativi di spaventare non possano fare a meno di apparire piuttosto prevedibili e telefonati agli occhi dello spettatore abituale del genere che ha regalato notorietà a Frankenstein e Freddy Krueger, l'operazione Autopsy si rivela, in ogni caso, ottimamente confezionata dal punto di vista tecnico e dispensatrice di una soluzione finale inaspettata e diversa dal solito. Una piacevole sorpresa nel panorama di horror fotocopia sfornati negli ultimi tempi.

Autopsy Padre e figlio interpretati da due attori di spessore, una salma femminile ed un claustrofobico ambiente chiuso. Sono sufficienti questi tre elementi per consentire al norvegese André Øvredal di mettere in piedi Autopsy, film dell’orrore che avanza lento concentrandosi su un’unica, tesa situazione destinata a condurre alla non prevedibile situazione finale. Un esercizio di stile confezionato con professionalità e nulla più, ma capace almeno di distaccarsi dal marasma di ormai troppo abusati found footage, ghost story e film d’esorcismo che sembrano aver monopolizzato la produzione horror cinematografica d’inizio terzo millennio.

6.5

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