Forse Wes Anderson non ha più nulla da dire. Ma, quel poco, lo dice meravigliosamente. Asteroid City ne è la prova ulteriore, vista già la latitanza di una vera e propria storia all'interno di The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (recuperate la nostra recensione di The French Dispatch nell'attesa dell'uscita del nuovo film il 14 settembre. In realtà, il precedente film di Anderson era l'esaltazione della parola e della stampa, espressa nella maniera più effimera possibile: l'immagine. Anzi, per la precisione, il suo simulacro.
Nel sottolineare l'importanza e la bellezza della scrittura, nello specifico giornalistica, The French Dispatch parlava tramite la tipica composizione simmetrica delle sequenze del cineasta texano portate alla loro massima forma, sublimando lo stesso tratto stilistico per cui il regista è diventato famoso. Il raggiungimento di una completezza per cui, oltre, effettivamente sarebbe difficile andare. Asteroid City conferma quindi la difficoltà dell'autore nel potersi spingere in avanti, tornando su una direzione più umana e meno "ispirata", ma pur sempre affine e rappresentativa del suo lavoro.
Asteroid City, l'opera meta-teatrale di Wes Anderson
Se l'arte della scrittura telegrafica, essenziale, informativa e comunque narrativa, era stata la base su cui costruire le tre storie di The French Dispatch, in Asteroid City sono le luci del teatro a illuminare un racconto creato per un palcoscenico, ma riprodotto dal film come un'opera cinematografica. Meta-teatrale, più che meta-cinematografico.

La costruzione di una pièce di cui conosciamo il creatore, il drammaturgo Conrad Earp impersonato da Edward Norton, che dentro e fuori la sua storia ci porta alla scoperta sia dei processi di ideazione che dinnanzi al risultato del proprio lavoro. Nel film osserviamo il palco, le quinte, il retroscena, diventando presto chiaro agli spettatori che, quello che andranno a vedere, non è altro che un momento di spettacolo che, in verità, sta avvenendo in quel preciso momento su di un palco.
Un cinema rètro e alieno
Fare dentro e fuori quel rettangolo di legno, sconfinare andando più in là del sipario. Sentire una voce che, extradiegetica, descrive dapprima il titolo, il luogo, le ambientazioni e i personaggi, con tanto di presentazione degli attori che andranno a interpretarne la storia, a propria volta interpreti che noi stessi conosciamo con ben altri nomi (Scarlett Johansson, Tom Hanks, Jason Schwartzman, ecc...).
Le incursioni tra reale e finzione, tra ciò che avviene in scena e ciò che accade alle prove, è la maniera di Anderson di ricordarci ogni volta che, il suo, non è altro che questo. Cinema al confine, cinema in bilico, cinema estatico. Un cinema in cui sappiamo perfettamente chi sono i suoi attori feticci, in cui non sempre il racconto segue un andamento regolare e che anche i suoi modi di narrazione stanno evolvendosi, cambiando. Non intraprendendo più storie lineari e chiuse, ma cercando di rendere un "concetto" il senso stesso dell'opera. Qui, con Asteroid City, il centro è l'assenza, volontaria, proprio del "senso" interrogato. Mescolare a un retro futurismo, nella sua atmosfera anni Cinquanta, la completa mancanza di direttive e coordinate, se non quelle riferibili all'insensatezza medesima delle storie. Al loro non essere altro che mezzi per creare contatti, terresti e extraterresti. In cui perdere la bussola è spesso l'unica maniera per fruire davvero i racconti: "non ci si può svegliare se non ci si addormenta mai". Così eccolo, un nuovo film di Wes Anderson. Vuoto? Pieno di incoerenza, di assurdità, di sventatezza. Ma non è esattamente la vacuità che ci ha insegnato il teatro del Novecento? Forse lo sé, forse no. Forse è soltanto un cinema alieno.