Nei sobborghi di Leipzig, qualche anno dopo la caduta del muro e la riunificazione della Germania, cinque giovani si trascinano dallinfanzia all’adolescenza facendo i conti con una città ancora priva di una vera identità, troppo a lungo squarciata dalla storia. Rico, Dani, Pitbull, Mark e Paul si trasformano da ragazzini della Berlino Est ad adolescenti figli di una nuova globalità che ancora non gli appartiene, e che dissacrano muovendosi in una notte eterna fatta di vandalismo, birre, scassi e piccoli furtarelli. Accompagnati da un’assordante musica techno che sembra avere come unico scopo quello di essere più rumorosa dei loro pensieri, i cinque sfidano il sistema annaspando verso il sogno di ‘essere i più grandi’, senza riuscire davvero a mettere a fuoco un modo per riuscirci. Andreas Dresden si incolla ai loro volti e riporta sullo schermo la loro rumorosa confusione, spingendosi oltre la classica messa in scena e frammentando una narrazione fatta di enormi titoli in colori sgargianti e luci catarifrangenti a scorporare i movimenti. Intervallato al tutto, quel sogno d’infanzia di cinque bambini illuminato dagli unici momenti di vera luce del film, quelli in cui il sensibile piccolo Dani vinceva concorsi di poesia alle elementari e coltivava il sogno di diventare reporter - un sogno che ha a lungo desiderato ed infine abbandonato.
L’utopia di un perpetuo sogno di grandezza
La Berlino riunificata solo nei nomi ma ancora troppo divisa nelle idee è il teatro ideale per il racconto del regista tedesco, perché figlia di enormi contraddizioni. Esattamente come lei, anche la pellicola si muove in un continuo dualismo tra brutalità e tenerezza, distruzione e speranza, amicizia e tradimento. Nei volti dei cinque ragazzi fin troppo spesso si scorge quella confusione anarchica propria di un periodo di transizione che le loro anime incarnano in pieno, e che per i loro spiriti in pena si risolve in una sperimentale discoteca underground e nella timida ribellione ad un gruppo di skinhead, rimasugli ideologici di una realtà nuova nel nome ma non nel cuore. Tuttavia nel suo racconto troppo staccato e nei suoi continui salti da uno stile all’altro Andreas Dresden non regala a As We Were Dreaming quell’unità di cui avrebbe bisogno, finendo per cadere nella stessa trappola confusionaria dei suoi stessi protagonisti. Ad una prima parte stilisticamente potente e molto convincente infatti segue una seconda che soffre di un profondo calo di ritmo, indugia eccessivamente e riesce a catturare di nuovo solo nel finale. Il regista tedesco annulla quell’utopico sogno di grandezza e lo affoga nella distruzione dei personaggi, mancando tuttavia di quel mordente che aveva reso la prima parte coinvolgente e sentita.
Dopo Catastrofi d’amore e Settimo cielo, il regista tedesco Andreas Dresden porta il suo ultimo lavoro (adattato dal romanzo di Clemens Meyer “As We Were Dreaming”) al 65° Festival di Berlino, presentando in concorso un film consacrato ad un intervallo di tempo sospeso in cui l’unità era sulla bocca di tutti e nei gesti di pochi. Negli occhi di cinque adolescenti Dresden inquadra infatti una progressiva confusione che tuttavia permane anche nella messa in scena: se nella prima parte la pellicola rimane fregiata di un interessante montaggio e di una volutamente discontinua fotografia, nella seconda perde di mordente ed appiattisce sia la narrazione che il potente stile iniziale, fallendo proprio in quell’armonia che rimane, purtroppo, costantemente fuori fuoco dentro e fuori dallo schermo.