Amsterdam Recensione: il flop di David O. Russell con un cast stellare

David O. Russell fa il suo ritorno e l'attesa è tanta, eppure non tutto va come previsto. Scoprite il perché nella nostra recensione di Amsterdam.

Amsterdam Recensione: il flop di David O. Russell con un cast stellare
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È un corridore che affronta la maratona senza il dovuto allenamento Amsterdam di David O. Russell. Parte velocemente, a un ritmo sostenuto, lanciandosi a perdifiato lungo un cammino che a lungo andare non riesce più a sostenere. Arranca, senza fiato, perdendo pezzi e incanalando fatica. Ogni punto di svolta arriva ai traguardi intermedi privo di forza, debole, incapace di rilasciare le proprie ultime energie nello sprint finale. E così, quello che appariva un papabile campione, finisce per ritrovarsi un semplice dilettante (nonché un flop da 100 milioni di dollari).

Tutto parte dalla New York del 1933. Il dottor Burt Berendsen e l'avvocato Harold Woodman sono amici fraterni e colleghi di lavoro, dal giorno in cui il generale Meekins li ha fatti conoscere, sul fronte europeo, durante la prima guerra mondiale. Ed è proprio al cospetto del cadavere di Meekins, che i due si accorgono di essere in pericolo. Determinati a vendicare il loro superiore, Burt e Harold finiscono nella ricca tenuta dei Voze, dove incontrano Valérie, ex infermiera di guerra e grande amore di Harold, sparita nel nulla dodici anni prima. Ad Amsterdam, a quel tempo, i tre avevano giurato di proteggersi a vicenda, e ora rinnovano la promessa, mentre si addentrano tra le maglie di una cospirazione che minaccia di far saltare le fondamenta della democrazia americana in nome di una supremazia bianca che sconvolgerà l'Europa da lì a poco.

Scrivere con l'inchiostro dell'ambizione

Aveva a propria disposizione ogni ingrediente per sconvolgere i cardini del successo e sorprendere, conquistare lo sguardo dei propri spettatori e far proprie le sue emozioni, mischiandole e shakerandole come un cocktail effervescente con le proprie. Ma tutto finisce per dissolversi come neve al sole; Amsterdam non ha più alla base fondamenta solide, una struttura urbanistica di impatto; è solo un castello di carta destinato a crollare alla prima, improvvisa, folata di vento.

E quello che avvolge l'ultima fatica di David O. Russell è un uragano travolgente la cui forza poteva essere sfruttata per immergere lo spettatore in ogni singolo raccordo di montaggio, ma che alla fine si lascia trovare impreparato, vedendosi scoperchiare ogni rifugio, ogni piccola fortezza narrativa. Cede così il ponte tra l'opera e il suo pubblico, disorientato e perso tra un labirinto architettonicamente d'impatto, ma narrativamente dispersivo, che tanto vorrebbe raccontare, ma che poco lascia tra gli strati più profondi dell'animo umano.

È un treno che corre veloce su binari dissestati, e obsoleti, Amsterdam. Tecnologico e all'avanguardia all'esterno, ma destinato a viaggiare su sistemi ferroviari antiquati e incapaci di sostenere una corsa talmente rapida, veloce, inafferrabile. C'è una divergenza di fondo che fa scricchiolare, fino a implodere, questa struttura di cristallo uscita dalla fucina di David O. Russell.

La sua penna sopraffina, sarcastica, si è immersa fin troppo nell'inchiostro della presunzione, per pulirsi sul panno dell'ambizione. Ne consegue una narrazione pluristratificata, che si dirama in più sottotrame, perdendo il centro del discorso, e intasando le arterie che portano il sangue al cuore pulsante dell'opera. E così, l'attenzione dello spettatore si perde, mentre lo sguardo si lascia ammaliare da una confezione estetica di pura bellezza, ma incapace di ripristinare un ritmo cardiaco ormai in arresto dal punto di vista narrativo.

Confezioni perfette, ma vuote dentro

È un pacchetto di Natale confezionato con estrema cura estetica, Amsterdam. Le riprese dal basso, che insinuano nei personaggi le radici più profonde di un mistero oscuro, e di una minaccia nata dagli inferi del pensiero umano, non suppliscono una mancanza di coerenza narrativa. Se la fotografia di Emmanuel Lubezki riesce a riportarci cromaticamente indietro nel tempo, ammantando tutto e tutti di una tonalità calda, quasi opprimente e claustrofobica, la penna di Russell osa, passando da una sottotrama all'altra.

L'avere a propria disposizione una galleria infinita di talenti attoriali porta l'autore a voler concentrasi su ognuno di loro, finendo per non caratterizzare pienamente alcun personaggio. Sta alla capacità degli interpreti di colmare tali lacune, come compiuto egregiamente da un Christian Bale in piena parte. Il suo Burt Berendsen compensa il tutto con una carica espressiva tale da rasentare - senza cadervi - il confine dell'overacting, per restituire una psicologia definita e un carattere del tutto esuberante e travolgente. È impossibile non amare il personaggio di Bale (presto su Netflix con The Pale Blue Eye), ma lo stesso non può dirsi dei suoi comprimari.

Sono bordi tratteggiati, ma non definiti, i protagonisti di Amsterdam. Essenze sfuggevoli e incapaci di lasciare un segno. Li percepiamo, ne comprendiamo i bisogni e le più superficiali sfumature caratteriali ed emotivi, senza però sentirci coinvolti dal loro stadio evolutivo.

La necessità di donare a troppi personaggi un'anima, finisce per limitarli nella loro profondità emotiva; c'è un ostacolo che impedisce la facile costruzione di un processo di affezione tra lo spettatore e la sua controparte cinematografica; troppe liane a cui potersi aggrappare, e così il pubblico finisce per lanciarsi nel vuoto e lì cadervi. Margot Robbie è incantevole nei panni della sua Valerie Voze, ma la sua performance giocata in sottrazione non fa altro che frenare la fuoriuscita di una personalità così, ma fortemente repressa. Scegliere di puntare su un legame simbiotico con il proprio personaggio, non giova nemmeno a John David Washington, il quale finisce per restituire una performance mai sopra le righe, ma proprio per questo apatica, monotona, incapace di scuotere l'animo delle persone e svegliarle dal proprio torpore. Proprio perché deciso a non lasciare nessuno indietro, intasando la propria opera di continui personaggi e, di conseguenza, di infinite storie, David O. Russell costruisce un patchwork indefinito di caratteri appena abbozzati, gettando sullo schermo interpreti sopraffini incapaci di sfruttare il proprio talento, destinati a raschiare il baratro delle macchiette e dei caratteri stereotipati.

E così Michael Shannon e Mike Myers si riducono a un duo comico privo di ironia nella loro elucubrazione di topoi caratteristici le proprie nazioni di appartenenza: Chris Rock si fa megafono urlante di battute al vetriolo, ma poco impattanti; Robert De Niro è una mera guest-star del tutto sprecata; limitata anche la coppia formata da Rami Malek e Anya Taylor-Joy, ingabbiati tra i contorni di personaggi caricati, ma mai indagati nei pensieri e negli intenti. Sono fantasmi che vivono nel battito di una comparsata sullo schermo i protagonisti di Amsterdam; toppe malcurate di un abito magniloquente e magnifico, vestito, però, su un corpo sterile.

Parlami di ieri con parole di ieri

È uno sguardo rivolto al passato per parlare del nostro presente, Amsterdam. Un viaggio nel tempo compiuto non soltanto sulla spinta di un'ambientazione che riporta il proprio pubblico tra gli anni Trenta e ‘18, ma anche e soprattutto grazie a riprese meta-cinematografiche che fanno di Amsterdam il più sentito omaggio alla Nouvelle Vague.

Vivono negli inframezzi dell'opera di O. Russell dei frammenti magici ereditati dal Jules et Jim di Truffaut, o dal Bande à part di Godard. Il trio fattosi un'unica entità, la triade unitasi in solo corpo e in una sola anima, lasciano spazio a una sequela di riprese dinamiche, raccordate da un montaggio frenetico e discontinuo, volto a riprodurre a livello visivo quel senso di smarrimento che attanaglia i protagonisti nel corso delle proprie ricerche. Un manifesto di ieri scritto con l'inchiostro di oggi, di quella contemporaneità intrisa di una storia che ripete se stessa, e con essa il vortice di errori che ci hanno plasmato, modellato, ma da cui pare non abbiamo imparato nulla. Eppure, il memento cinematografico redatto da Russell non funziona, non colpisce, passandoci a fianco come un annuncio isolato tra le corsie del supermercato. Troppo confusionario a livello narrativo, il film non permette al proprio pubblico di farsi seguire in questo schiaffo pronto a risvegliarci, mostrandoci la gravità del nostro presente colmo d pregiudizi e odio, gli stessi che aleggiavano sull'Europa nel '33.

Se con Amsterdam lo sguardo si appaga per un un costrutto visivo esteticamente soddisfacente e penetrante, la mente si annebbia; il messaggio si perde tra una coltre di fumo soffiato dal peso di mille parole perdutesi nel vento, e ora fattesi particelle d'acqua pronte a evaporare nell'attimo della loro pronuncia. Ogni profondità di intenti svanisce così per sempre, senza insidiarsi nello spazio di una mente che lavora, assimila, e si lascia plasmare da una cinematografica che Amsterdam promette di avere, ma che invece non possiede. Nessuna cicatrice a imprimersi per sempre sulla propria opera; quelle lanciate da David O. Russell sono solo schegge che sfiorano il corpo del proprio film, creatura dal fisico perfetto, ma priva di anima.

Amsterdam L'ultima fatica di David O. Russell disattende le altissime aspettative proponendo un'opera confezionata esteticamente in maniera impeccabile, ma vuota dal punto di vista del contenuto. Frenata da una sceneggiatura confusionaria, che tanto vorrebbe dire, ma poco racconta, il film non arriva al cuore dello spettatore, arrestando il proprio battito su pochi barlumi di preziosa eccellenza (Christian Bale e la fotografia di Lubezki in primis).

5.5

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