L'Amore non va in Vacanza, la recensione: alla riscoperta della gioia

Una giornalista inglese e una produttrice americana decidono di scambiarsi le case, provando a ricercare le gioie dell'amore.

L'Amore non va in Vacanza, la recensione: alla riscoperta della gioia
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Gli uomini non sono tutti uguali. Possono, anzi devono (o dovrebbero? Possiamo dire che sia auspicabile, quantomeno), esserlo di fronte alla legge e allo Stato: stessi doveri, stessi diritti, stesse responsabilità, stesse possibilità. Però è evidente che così non è. Dio, la Natura, il Caso, o chi per loro, è stato a dir poco iniquo nella distribuzione delle risorse, economiche, intellettuali, spirituali che siano. E non è nemmeno un problema di quantità relative o di proporzioni: una caratteristica non ne compensa un’altra, la somma degli addendi non è una costante universale. Semplicemente, alcuni individui sono più dotati di altri, è sotto gli occhi di tutti. Ma, per continuare la metafora matematica, un minimo comune denominatore tra gli appartenenti alla razza umana c’è: è la loro (nostra) completa, inevitabile incapacità di opporsi alla forza dell’Amore. L’operatore di call center e il facoltoso industriale, l’ingegnere nucleare e quello che ha deciso che le frazioni nella vita reale non gli sarebbero mai servite a nulla, il missionario o il rapinatore di supermercati: niente li differenzia quando giunge il ferale momento del nodo allo stomaco, dell’accelerazione dei battiti cardiaci, della secchezza delle fauci, del corto circuito cerebrale. Viva la democrazia dell’Amore, largo alle alterazioni dei normali parametri psicofisici.

Iris e Amanda non potrebbero, per l’appunto, essere più diverse: l’una, romantica e un po’ ingenua giornalista inglese, specializzata in matrimoni; l’altra, energica e smaliziata proprietaria di una società che realizza trailer cinematografici, ovviamente sulla West Coast. Ad entrambe si prospettano, però, delle vacanze natalizie a dir poco deprimenti, considerato che Iris è appena venuta a conoscenza del fidanzamento dell’ex (che non sarebbe di per sé cosa grave, se lei non ne fosse tuttora innamorata e lui non si approfittasse dell’ingenuità della poveretta rispolverandola alla minima, opinabile necessità) e che Amanda ha giustappunto sbattuto fuori di casa il compagno fedifrago (che come scusanti ha addotto la di lei scarsa predisposizione al sesso nonché incapacità di versare anche solo una lacrima). Indubbiamente, le due necessitano di un terapeutico periodo di ferie, e in questo viene loro in aiuto il meraviglioso mezzo che è internet: consultando un sito specializzato in “scambio casa”, Amanda si imbatte nel pittoresco cottage di Iris, che, messa di fronte alla prospettiva di abbandonare la solitaria campagna inglese in favore del sole e delle piscine losangeline, non esita un istante a fare le valigie. E se per la delusa giornalista l’impatto con l’abitazione lussuosa e iperaccessoriata di Amanda è addirittura superiore alle aspettative, l’approccio della bionda imprenditrice (ma soprattutto quello dei suoi tacchi a spillo) con le stradine di campagna ingombre di neve necessarie a raggiungere l’isolata destinazione non è dei più incoraggianti. Per fortuna, una visita inaspettata la distoglierà dal proposito di rimpatriare la mattina successiva: il fratello di Iris, inconsapevole della partenza della sorella, si presenterà infatti alla porta della familiare abitazione, chiedendo asilo dopo una sbornia colossale. Certo, l’imbarazzo di aver fatto sesso con uno sconosciuto (a seguito di una propria richiesta esplicita, peraltro) la mattina dopo si farà sentire, ma l’incontro si rivelerà ancora più fortunato una volta scoperto che le qualità di Graham non si fermano a quelle più palesi alla vista, ma comprendono la simpatia e la spontaneità necessarie ad assicurare un secondo appuntamento, magari un po’ più convenzionale. Sull’altro versante, anche ad Iris non saranno risparmiate nuove conoscenze degne di nota: un vicino di casa ultraottantenne, mostro sacro della sceneggiatura ma reso un po’ misantropo dall’isolamento autoimposto, si rivelerà per lei quasi un mentore, mentre con il brillante Miles (decisamente più papabile, quantomeno per una questione di età), compositore di colonne sonore e amico di Amanda, non tarderà a crearsi una particolare empatia, cementata dalla comune delusione per le rispettive recenti esperienze fallimentari. Fin qui, tutto bene o quasi. Ma le complicazioni sono sempre in agguato, sotto forma di terze parti un po’ ingombranti, impossibili da non considerare.

Un film che esca la settimana di San Valentino ha notevoli doveri morali nei confronti degli spettatori, in coppia o meno che siano: a chi è più o meno felicemente accompagnato deve rinverdire i ricordi dei primi, magici momenti, quantomeno per instillargli un po’ di fiducia nelle occasioni in cui è costretto a chiedersi, non senza un certo sgomento, in nome di quale irragionevole motivo si sia andato a ficcare in una simile situazione; a chi invece è ancora alla ricerca della fantomatica metà della mela ha il compito di rendere evidente come possa bastare una coincidenza fortunata, unita magari ad un po’ di intraprendenza, a creare le condizioni per guardare al futuro con un certo ottimismo. E la pellicola di Nancy Meyers si occupa diligentemente di soddisfare i requisiti, conducendoci, anche a mezzo di aneddoti e siparietti in grado di strappare più di un sorriso, tra una storia e l’altra, senza quasi lasciarci il tempo di decidere se parteggiare per la coppia Amanda-Graham, imbarazzati e attratti dalle proprie complementarità, o per il sodalizio Iris-Miles, accomunati non soltanto dalla disillusione ma soprattutto dalla stessa acuta sensibilità. E’ la leggerezza, che spesso non ci concediamo di avere quando siamo noi ad essere coinvolti in prima persona, a rappresentare il punto forte del film, e ad impreziosire una sceneggiatura di per sé non troppo originale, dandone una chiave di lettura ironica e positiva, soprattutto mantenendo sempre lo spettatore al riparo dall’imbarazzo di essere chiamato ad assistere ad ormai famigerate scene alla melassa che di plausibile, almeno nell’universo a noi noto, hanno ben poco. Un ruolo tutt’altro che marginale assume anche la duplice, quasi speculare, ambientazione attorno alla quale si snoda la vicenda: se per Amanda, viziata dalle fredde lusinghe della propria reggia, trionfo dei tempi moderni, sarà a dir poco istruttivo misurarsi con l’ambiente raccolto e retrò della campagna inglese per riscoprire in se stessa quella spontaneità che pensava relegata ad un ricordo d’infanzia, Iris riuscirà, nell’atmosfera aperta e dinamica di Los Angeles, a ripensare con razionalità e, meglio tardi che mai, una certa dignità, alla propria politica di relazione con l’altro sesso, e persino a ritrovare il rispetto per se stessa e per i propri sentimenti.

L'Amore non Va in Vacanza L’Amore non Va in Vacanza è una commedia romantica decisamente riuscita. Gli stilemi propri del genere ci sono tutti, non manca il giusto grado di rassicurante prevedibilità, ma il rischio retorica è fortunatamente scongiurato, anche grazie all’interpretazione fresca e ironica di tutto il cast, soprattutto della coppia Winslet-Black, sfortunatamente penalizzata in termini di tempo in favore dei più patinati, ma comunque simpatici, Diaz-Law. Peccato che nel (nei) film tutto - distanza, tempo, un passato invadente - si risolva (anche grazie ad una strategica scelta dei tempi) con un bacio. Forse, in una dimensione parallela in cui hanno continuazione le immaginarie vicende di celluloide, anche ai nostri protagonisti non basta più un magico scambio di sguardi per risolvere ogni interrogativo. Forse a loro riesce di mettere comunque le cose al loro posto. O forse no, e devono arrabattarsi come facciamo noi, perché non esiste nessuna ricetta segreta per la felicità. Ma probabilmente è meglio non saperlo, e continuare comunque a cercare la propria.

6.5

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