America Latina Recensione: l'incerto sogno oscuro dei fratelli D'Innocenzo

Il nuovo film dei D'Innocenzo è una malriuscita opera astratta sul male che si annida nella provincia barbara e crudele.

America Latina Recensione: l'incerto sogno oscuro dei fratelli D'Innocenzo
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Il nuovo film dei Fratelli D'Innocenzo è decisamente audace e complicato, un prodotto rischioso con cui hanno cercato di sublimare le tematiche a loro più care, esplorare il dramma domestico, la dimensione familiare mostruosa e senza pietà come già avevano fatto in passato. Tuttavia, al netto di una costruzione esteticamente e visivamente suggestiva, di una grande performance da parte di Elio Germano, America Latina si rivela un'opera monca, spezzettata, che colpisce ma lo fa in modo indistinto, senza poter rivendicare una grande originalità di contenuti o di sguardo.

Non sempre infatti il minimalismo va a braccetto con la profondità, non sempre lo stile giustifica o compensa ogni cosa, e l'inaccessibilità non è di per sé un pregio. A Venezia 78, America Latina in fin dei conti arriva come una nota stonata, non richiesta, una sperimentazione fuori tempo massimo.

Un viaggio dentro la "America" Latina oscura

La vita di Massimo Sisti (Elio Germano) appare perfetta. Dentista affermato e ricco, è anche marito affettuoso e devoto di Alessandra, padre attento ma mai possessivo di Ilenia e Laura. Tuttavia, nella Latina paludosa e desolata, la solitudine è una cagna feroce che lo insegue, mitigata dall'alcool, da poche amicizie, dal lusso in cui si sommerge.

Poi, però, un giorno scende in cantina e improvvisamente trova una ragazzina legata e imbavagliata. Com'è finita lì? Chi ce l'ha messa? Cosa sta succedendo nella sua vita? Il cinema dei Fratelli D'Innocenzo è connesso all'incubo domestico che si snoda nella piccola borghesia o nel proletariato infido della provincia italiana, ha sempre seguito il modus operandi di una favola oscura e terribile. Qui non va diversamente, mentre andiamo dietro ai passi di un Elio Germano stralunato e fuori controllo, sempre più perso dentro il suo incubo in cui verità e menzogna si uniscono e si fondono, si disconnettono dal reale.

La regia è ammaliante come sempre, intima, rende benissimo l'idea di periferia nel senso più universale del termine, si connette molto all'eredità dell'Italia anni '90, quella del benessere economico più desueto e inutile, della materialità che strangola ogni possibilità di empatia o comprensione. La bellissima fotografia di Paolo Carnera valorizza in modo perfetto le scenografie di Roberto De Angelis, improntate a un dominio totalizzante di colori scuri, con il verde dell'instabilità totale, il rosso del sangue, il grigio del cemento.

Questo è un universo freddo e crudele, privo di vita e nobiltà, in cui non esiste società e comunità, solo la disperazione di esistenze monotone e asfissianti, di un ideale di perfezione che non ha modo di sopravvivere alla realtà.
La routine, i rituali familiari, la luce emanata dagli affetti, sono tutto ciò che rimane ma non basta per salvarsi da ciò che siamo, da ciò che ci hanno fatto.

Opera metaforica o autocompiaciuto esercizio di stile?

Allora cos'è che non funziona in questo America Latina? In primo luogo, la sceneggiatura non aggiunge né toglie nulla al già visto e già detto, appare incredibilmente incerta sulla direzione da prendere, sulla necessità di giustificare il senso di questo thriller psicologico.

La ricerca di un'identità fa sì che ci si connetta all'eredità non tanto di Hitchcock, quanto di Argento, di Bava, ma l'estetica scelta, la freddezza dello sguardo della telecamera, le simmetrie, gridano al cinema di Arofonsky (qui potete leggere la nostra recensione di Madre!) e Lanthimos a pieni polmoni, recuperando la mitologia del sangue, per guardare alla femminilità ora etera, ora impalpabile, cieca e vulnerabile in un mondo fatto di squilibri e follia.

Gli elementi lottano tra di loro, nonostante l'acqua sia il trait d'union di una follia che cresce mano a mano, mentre Massimo si guarda con fare sospetto e folle, e il focolare domestico viene distrutto di fronte ai suoi occhi. Ma tutto questo arriva a sprazzi, senza una chiara direzione di marcia che ci dica qualcosa di più sulle motivazioni dei personaggi, quasi tutti poi messi in disparte e ben poco approfonditi, abbracciando una dimensione totalmente asservita a Elio Germano.

Favolacce, da questo punto di vista, ci aveva offerto se non altro una maggior possibilità, e ne parlavamo proprio nella nostra recensione di Favolacce: potevamo immergerci dentro un contesto realistico e potente. Qui vi è un'atmosfera indefinita e opprimente non nobilitata da una chiara lettura del perché, delle situazioni, da una loro progressione o mutamento significativo.
Alla fin fine, l'impressione è quella di un esercizio di stile abbastanza desueto e sterile, oltre che autocompiaciuto nel mettere a disagio lo spettatore.

Un risultato incerto e non abbastanza incisivo

Centrale nel film è sicuramente la critica al consumismo, al mito del piccolo borghese dedito a lavoro e famiglia, con il regno domestico fatto di piscina e architettura moderna, distante dai canoni estetici dei padri. Il dolore di questo tempo, le famiglie distrutte dall'oggi al domani, che affollano la nostra cronaca, sono nate nel patriarcato opprimente, nella violenza e ignoranza riscattata da piccoli mestieri, dagli oggetti, dalle figlie candide e perfette nella loro dimensione domestica che deve rimanere intatta. Però America Latina non funziona perché non approfondisce il concetto di impotenza, non spinge nei momenti in cui potrebbe e invece lo fa gratuitamente in quelli di minor importanza o interesse, allontanandosi sempre dal suo nucleo.

Come vi raccontavamo nella recensione di La Terra dell'Abbastanza, lì c'era la cesura tra uomo e società, tra famiglia e singolo in modo più comprensibile rispetto a questa sorta di ode all'orco che si nasconde in tutti noi. Rimane l'audacia di un film astratto e prismatico, la volontà di parlarci in modo diverso dello stesso tema, ma se poi non vi è di fondo una trama che offra vere svolte, se si rimane schiavi dell'elemento visivo, della sonorità pura, allora emergono i problemi. C'erano grandi attese per questo film. Che però rimane una delusione, un punto interrogativo che non trova consolazione e risposta, neppure nella potenza dell'insieme.

America Latina America Latina è un film sicuramente interessante dal punto di vista visivo e sonoro, girato in modo intimo e coerente. Tuttavia, l'ennesima fiaba oscura sulla provincia più dimenticata, materialista e crudele, non decolla mai, a dispetto di un Elio Germano in ottima forma e sempre espressivo. L'insieme risulta troppo incostante, si accontenta di soluzioni visive con cui riempire i vuoti di una narrativa fragile e monca, che relega i personaggi ad attori passivi di un dramma che non arriva mai a fare il salto di qualità. Molta vanità, molta ricerca, però poca sostanza.

5

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