Alps, la recensione del film di Yorgos Lanthimos

Arriva nelle sale il terzo film del regista greco, un inno alla disgregazione dell'Io che si adombra di contorni freddi e inquietanti.

Alps, la recensione del film di Yorgos Lanthimos
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Il cinema di Yorgos Lanthimos ha sempre operato su una dissoluzione dei personaggi all'interno della storia, oltre che sulla mancanza di certezze che catapulta lo spettatore su sentieri impervi dove non ci sono gli appigli per sentirsi sicuri. Questo si nota sia nelle sue opere del periodo ellenico, dall'esordio di Kinetta (2005) al folgorante Dogtooth (2009), sia nelle più conosciute produzioni in lingua inglese: dal futuro distopico di The Lobster (2005) all'inquieto psico-dramma familiare a tinte horror di Il sacrificio del cervo sacro (2017), fino al raffinato ménage à trois femminile de La favorita (2018), nulla è certo e tutto è in discussione.
Alps, proposto ora nelle sale italiane grazie alla distribuzione di Phoenix International Film, si colloca esattamente nel mezzo tra questi due periodi essendo datato 2011 ed è l'ultimo titolo, a oggi, girato in madrepatria.
Come vedremo, anche e soprattutto in quest'occasione, il regista opta per un inesorabile disintegrarsi delle figure protagoniste in una vicenda che dietro i suoi paradossi e le sue marcate esagerazioni nasconde inquietanti riferimenti alla società contemporanea.

Uno, nessuno, centomila

Al centro del racconto vi è un gruppo di quattro individui, dei quali non conosceremo mai il nome proprio, che si ritrovano all'interno di una palestra per organizzare la loro particolare attività extra-lavorativa.
Il quartetto, che si fa chiamare Alps e in cui ogni membro usa uno pseudonimo riferito a una vetta della relativa catena montuosa, offre infatti dei servigi unici ai propri clienti, ovvero sostituirsi a persone da poco scomparse per allietare il dolore di amici e parenti e aiutarli a superare il lutto: nonostante la macabre circostanze gli Alps ottengono molte richieste.
Una di loro, Monte Rosa, lavora come infermiera in ospedale e quando scopre che una giovane paziente, giocatrice di tennis, ha perso la vita durante un tragico incidente, propone ai suoi genitori di impersonificarla per un periodo al fine di alleggerire il peso della perdita.

Verità e bugie

Il caso della tennista è il principale all'interno del racconto, sia a livello di minutaggio sia per ciò che concerne i più salienti sviluppi chiave, ma nei novanta minuti di visione Alps offre molteplici contesti contingenti che danno un quadro psicologico via via sempre più destabilizzante e mettono a nudo le debolezze intrinseche delle varie figure protagoniste, in particolare proprio quella dell'infermiera Monte Rosa.
Realtà e finzione si mischiano costantemente e a un certo punto lo spettatore non distingue più il vero dal falso, con uno dei colpi di scena finali che amplifica in maniera definitiva il senso di disorientamento.
Disorientamento sottolineato anche a livello registico, con primi e secondi piani che paiono gestirsi su due spazi distinti, con le sfocature del sottofondo che acquistano significato altro nell'evoluzione di una trama criptica e volutamente minimale.

Dentro il labirinto

Perché a Lanthimos prima che i personaggi interessa il messaggio e poco importa se questo venga amplificato su territori ricchi di ambiguità, in sequenze dove il disagio e l'imbarazzo la fanno da padrone e mettono il pubblico stesso in una posizione scomoda e voyeuristica dalla quale osservare con curiosità, sdegno e ipotetica comprensione le esistenze di individui completamente privati di una precisa identità.
Un connubio antitetico che si rispecchia anche nel confronto diretto tra prologo ed epilogo, dove le gesta della giovane ginnasta sono accompagnate nel primo caso dai Carmina Burana e nel secondo da una canzone pop: uno stridio che ben si confà al deragliamento mentale che attanaglia il cervello dell'intero racconto.
Non il cuore perché l'opera è volutamente asettica e mette in mostra la fredda morte dell'Io in maniera subdola e cruda, a partire dalle meccaniche e costrette scene di sesso, lasciando sognare esclusivamente tramite le dichiarazioni d'amore verso gli attori preferiti dai numerosi clienti degli Alps, scampolo di quel sogno hollywoodiano che non si rispecchia mai e poi mai nella vita di tutti i giorni.

Alps Non è una dichiarazione d'amore per la Settima Arte come il capolavoro di Leos Carax Holy Motors (2012) e nemmeno un dolce-amaro gioco nostalgico come nel più recente La belle époque (2019), ma anche in Alps troviamo individui che si sostituiscono ad altri - in questo caso persone da poco scomparse - per il piacere di qualcuno. Alla sua terza prova dietro la macchina da presa Yorgos Lanthimos continua il proprio percorso di disgregazione dell'Io in un film dai risvolti psicoanalitici, che deforma la naturale via delle cose per raccontare un disagio crescente nel quale coinvolge, minuto dopo minuto, anche lo spettatore stesso. La perdita di identità si riflette in una narrazione incostante e in una regia senza punti di riferimento, dove ciò che resta in sottofondo è magnificato orpello di una finzione costruita ad hoc e la realtà è solo una delle tante sfumature di questa gigantesca recita dell'anima, nella quale i personaggi si perdono e precipitano inesorabilmente come la principale figura di Monte Rosa. Novanta minuti di visione che rifuggono l'emozione e si lasciano cullare morbosamente da questa lucida mancanza di certezze, affascinante e disturbante in egual misura.

7.5

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