Alice in Wonderland, la recensione di Andrea Bedeschi

Tim Burton e la sua Alice intrattengono lo spettatore, ma non colpiscono i cuori: la recensione di Andrea Bedeschi.

Alice in Wonderland, la recensione di Andrea Bedeschi
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Ogni volta che la Walt Disney Company ha realizzato un cartoon basandosi su una fiaba o una storia conosciuta in ogni angolo del globo, questa ha fatalmente perso ogni sorta di legame con il suo creatore originale. Possiamo citare i fratelli Grimm, Rudyard Kipling, James Matthew Barrie: il risultato non cambia. La forza dirompente con la quale i classici Disney si sono impossessati dell'immaginario collettivo è ben nota fin dal 1937, anno di uscita di "Biancaneve e i sette nani". Per quanto riguarda "Alice nel Paese delle Meraviglie" e "Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò" di Lewis Carroll, lo pseudonimo adoperato dal matematico e Diacono Charles Ludwidge Dodgson, dato dall'inversione, latinizzazione e successiva rianglicizzazione dei due nomi di battesimo (Ludovicus Carolus), il rapporto con la storia del leggendario mogul del cinema si fa ancora più stretto. Nell'interessantissima biografia scritta da Michael Barrier "Vita di Walt Disney, Uomo, Sognatore e Genio" da poco pubblicata anche in Italia grazie a Tunué, vengono ripercorse quelle fasi in cui Walt Disney era il fondatore dello studio Laugh-O-Gram presso Kansas City e la Disney Inc. era ancora relativamente lontana (erano gli anni venti). Ebbene, prima di abbandonare la ditta con un biglietto di treno di sola andata per Los Angeles, Disney stava lavorando proprio ad un progetto che mischiava live action ed animazione chiamato "Alice's Wonderland". Non era direttamente tratto dai lavori dello scrittore inglese, e gli scopi erano più che altro di natura tecnica e narrativa, ma l'ispirazione era piuttosto palese. Ecco cosa dichiarava nel 1956 lo stesso Disney: "stavo cercando disperatamente qualcosa che funzionasse, che ingranasse. Così pensai ad un cambiamento radicale. Fino ad allora, c'erano stati solo i personaggi disegnati che interagivano con gli esseri umani, nati inizialmente da Max Fleischer. Io allora mi dissi, beh, forse potrei invertire la cosa, potrei mettere gli umani nel mondo animato. Nei cartoon di Fleischer il personaggio animato altava sempre fuori dal disegno, girava in una stanza reale e interagiva con una persona vera. Io al contrario presi una persona reale e la misi dentro al disegno".
Come potete vedere, le similitudini e il debito verso Carroll, seppur contestualizzate in un ambito d'innovazione tecnica dell'arte dei cartoni animati, erano forti. A cavallo della seconda guerra mondiale, Disney e i suoi creativi tentarono poi la strada diretta del lungometraggio animato di "Alice in Wonderland"; progetto che, per vari motivi, si arenò fino al 1951, anno in cui arrivò proprio "Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie". Il resto, come si suol dire in questi casi, è storia nota. Una storia che arriva fino ai giorni nostri....

Alice protagonista su Everyeye.

In seguito all'enorme interesse dimostrato dagli utenti di Everyeye nei riguardi di "Alice in Wonderland" abbiamo deciso di ripetere l'esperimento fatto con "Avatar" proponendovi due recensioni del film ad opera della redazione di Movieye. E come la pellicola di James Cameron, anche quella di Tim Burton ha creato delle stimolanti divergenze all'interno della squadra. Buona lettura!

Il Genio della California

« A Hollywood ci vado solo per lavorare, non vivo più a Los Angeles; la mondanità non mi piace, mi sento vicino ai miei personaggi, poco integrati e in conflitto con la società: anch'io tendo a interiorizzare tutto, sono chiuso, solitario e arrabbiato »
Tim Burton

Nonostante, secondo alcuni, la vena artistica di Tim Burton si sia raffreddata rispetto ai fasti di Edward Mani di Forbice e Ed Wood, noi preferiamo pensare che la sua nuova strada sia semplicemente diversa. A nostro avviso, un film-musical come "Sweeney Todd" ha lasciato spiazzati in molti perché, per la prima volta nella carriera del regista, non c'è davvero spazio per la felicità e l'ottimismo, magari venato di malinconia, delle altre sue opere. Va poi sottolineato come nel generale piattume d'idee che permea un'industria cinematografica in cui l'originalità è ormai smarrita fra un remake, un reboot e un cinecomic di troppo, Tim Burton sia sempre riuscito ad infondere una forte dose di autorialità nei suoi lavori (senza per questo essere mai diventato pesante). Chiunque abbia letto i libri o i racconti dai quali sono stati tratti film come "Sleepy Hollow" o "Big Fish", sa bene che il filmaker di Burbank non si è accontentato di svolgere un anonimo compitino, ma è anzi riuscito a riplasmare storie scritte da altri, rendendole proprie (senza voler sminuire l'importanza per la tradizione letteraria americana della novella "La Leggenda della Valle Addormentata" di Washington Irving o della prosa genuina e incisiva di Daniel Wallace e il suo "Big Fish", secondo chi vi sta parlando in questo momento le opere filmiche ad esse ispirate sono molto più ricche, tematicamente complesse e sfaccettate del materiale letterario alla base). Sulla carta, l'unione della poetica di Lewis Carroll con quella di Tim Burton è potenzialmente esplosiva. Tuttavia, il percorso è irto di ostacoli per la natura stessa della prosa dello scrittore inglese, come avremo modo di accennare più in avanti.

Hype in Crescendo.

Fin dal Comic Con dello scorso anno, l'hype intorno ad "Alice in Wonderland" è cresciuto in modo esponenziale e quasi inusitato per una pellicola di un regista come Burton, abituato comunque avere dei lusinghieri risultati al botteghino (Batman anyone?). Sorvoliamo sulla trama (per chi fosse interessato ad una trattazione più rigorosa della stessa, v'invitiamo a leggere la nostra precedente review). Ci limitiamo a marcare quello che, oramai, è noto grosso modo a tutti: è un ritorno al Paese delle Meraviglie che avviene 13 anni dopo la prima caduta di Alice nella Tana del Coniglio. Tanto casuale e fortuita quella dell'infanzia, quanto pianificata e studiata a tavolino dal Bianconiglio and co. la seconda. Il Wonderland infatti, è diventato ora un Underland oscuro regnato da una Regina Rossa con evidenti problemi di anger managment, è stato trasformato in una terra da salvare. L'incipit della storia fra presagire il meglio ed è in puro stile Burton, non tanto a livello d'impostazione visiva, per quanto nella panoramica iniziale si possano trovare effettive similitudini con "Sweeney Todd", quanto su un piano tematico. Come in "Sleepy Hollow" o "Nightmare Before Christmas", le avvisaglie di uno scontro fra la razionalità, delineata dall'ingessata nobiltà ed alta borghesia vittoriana, e l'irrazionale afflato di modernità espresso da un'Alice poco incline ad essere limitata da schemi fissi e precostituiti, sono forti. Poi però, una volta arrivati nel Sottomondo, il tutto assume una piega piuttosto banale e prevedibile. Superato l'incantamento iniziale della visione di un mondo bislacco e popolato da individui e creature strampalate realizzate con qualità grafica altalenante, la vicenda vira verso il classico raccontino fantasy ben scritto e girato, ma freddo e senz'anima. Ed è questa particolarità a lasciare basiti visto che quello che ci troviamo davanti agli occhi è un film di Tim Burton. Il caravanserraglio teratologico di Lewis Carroll, un pantheon con il quale il poeta cinematografico degli outsider sarebbe potuto andare a nozze, resta un amalgama di character a malapena abbozzati. Il Cappellaio Matto di Johnny Depp, che porta al film la sua consueta professionalità, è una figura tutto sommato banale e iperbolica, la cui drammaticità viene appena accennata da un flashback nella quale, per inciso, viene commesso un potenziale errore di continuity cronologica davvero ingenuo (non ve lo segnaleremo, vi lasceremo il piacere di individuarlo da soli e di giustificarlo o meno con quanto già narrato da Carroll e dal cartoon Disney del 1951). L'unica figura che riesce a tinteggiare il profondo rapporto con la diversità è la macrocefalica Regina Rossa dell'eccellente Helena Bonham Carter, la sola ad esprimere una tensione di conflittualità con la propria abominevole condizione fisica, tanto da contornarsi con un drappello di cortigiani deformi e freak capaci d'apprezzare la sua affascinante capocciona, andando così lenire un dolore e una sensazione di solitudine profondi e combattuti a suon di teste decapitate (in tal senso, la Regina Rossa può essere accostata alla nuova visione del diverso inaugurata con "Sweeney Todd"). Se dovessimo paragonare questo film ad un altro celebre ritorno presso delle lande fantastiche già conosciute grazie alla letteratura prima e all'universo Disney poi, il rimando più ovvio è quello con "Hook" di Steven Spielberg. Ma l'alfa e l'omega delle similitudini fra le due pellicole si ferma nei paraggi del fulcro tematico di "rientro in un luogo meraviglioso del quale si è praticamente perso il ricordo". Spielberg, con "Hook" ha segnato l'addio alla concezione dell'infanzia, di puer aeternus intesa come fase più importante dell'elaborazione del rapporto drammatico con l'alterità, per passare poi ai bambini queruli e fastidiosi di "Jurassic Park" e alla glaciale contrapposizione della bambina dal cappotto rosso e dei bambini tedeschi che, rivolti ai loro coetanei ebrei all'interno dei vagoni diretti verso i campi di concentramento, mimano il gesto di tagliare la gola in "Schindelr's List" ("Hook" prende le mosse da "Le Avventure di Peter Pan" ed è un vero e proprio affrancarsi dalla galassia variopinta dei character Disney tanto importanti per la formazione artistica del regista quanto per alcuni suoi celebri personaggi come il Roy Neary di "Incontri ravvicinati" e il Colonello Joseph Stilwell di "1941 Allarme ad Hollywood").
"Alice in Wonderland", pur offrendo una sana dose d'intrattenimento per famiglie, è del tutto privo di quella conflittualità tipica di Burton, non aggiunge nulla alla tavolozza della sua mai-troppo-lodata filmografia. Sinceramente, non sappiamo spiegarci il perché di tutto questo e non vogliamo neanche abbracciare l'ipotesi fatta da molti di "ingerenze" da parte della major: non dimentichiamoci che Tim Burton non si fece mettere i piedi in testa ai tempi di "Nightmare Before Christmas" e che la Walt Disney, giusto qualche mese fa, ha presentato nelle sale l'ultima fatica in mocap di Robert Zemeckis "A Christmas Carol", un racconto di Natale a tinte dichiaratamente horror. Probabilmente le colpe maggiori sono dello script. La sceneggiatura di Linda Woolverton, una signora che ha scritto uno dei più bei classici Disney di sempre ovvero "Il Re Leone", abbandona del tutto la via del surrealismo psichedelico intrapresa da "Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie" per scegliere la strada più facile del fantasy lineare che riprende pedissequamete gli step della fiaba così come sono stati analizzati da studiosi come Propp (abbiamo la protagonista, l'antagonista, gli aiutanti, l'oggetto magico e tutto l'ambaradan tipico della più classica delle fiabe) con vaghi accenni all'autodeterminazione femminile. E, letto in quest'ottica, il film raggiunge anche il suo scopo. Senza voler scendere in una disquisizione letteraria che vede i racconti di Carroll al centro di studi fin dal giorno della loro prima edizione, affermiamo senza remore che il lavoro di adattamento di queste due opere d'arte della letteratura inglese, non era certo una passeggiata di salute. Ci limitiamo a dire che la complessità della prosa di Carroll, con tutti i rimandi alla logica matematica, alla strategia degli scacchi, alla non linearità capace di precorrere i tempi tanto della fisica quantistica tanto dell'analisi massmediatica di McLhuan in "Understanding Media", travalica, forse, le possibilità di molti. La delusione di assistere alla proiezione di un Tim Burton de-potenziato per un motivo o per l'altro resta resta comunque grande perché, allo stato delle cose, "Alice in Wonderland" è un godibile blockbuster per il sabato sera che, al posto del nome del regista di Beetlejuice, poteva essere girato da qualunque bravo mestierante in quel di Hollywood. Da un artista come lui, ci aspettavamo di più che qualche timido riferimento alle Rocking Horse Fly e alle Snapdragon Fly (le Mosche Cavallline a Dondolo e le Libellule Flambé che Alice iaveva incontrato dopo aver attraversato lo specchio), senza contare che la poesia del "Jabberwocky", diventata nel tempo l'egida delle avanguardie letterarie da James Joyce in poi, diventa un semplice strumento di predestinazione in vista dello scontro finale. Il paragone è quindi improbo e non infieriremo oltre: quindi se tenterete di estraniarvi da questo e dal martellante viral marketing che ci ha accompagnato dalla scorsa estate passerete di certo una sfiziosa serata di cinema.

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3D o non 3D?

E' divenuta una prassi ormai consolidata quella di analizzare il 3D di una pellicola con un discorso a parte. "Alice in Wonderland" nasce come film in 2D e l'aggiunta della tridimensionalità è un add on che non apporta nulla. L'utilizzo di tale tecnologia si rivela per l'ennesima volta come un pretesto per degli scontati effetti di pop-up tesi più a distratte che a coinvolgere lo spettatore (e ci piace ricordare a questo punto, il bello scambio di opinioni su questo mezzo avuto con Enrico Casarosa di Pixar). Gli effetti digitali di Imageworks hanno una qualità altalenante: ci domandiamo se l'effetto-marionetta del Fante di Cuori impersonato da Crispin Glover (ricordiamo ai lettori che per la realizzazione del personaggio, è stata adoperata solo la testa dell'attore, mentre il corpo del Fante, alto oltre due metri, è completamente di sintesi), che ha delle movenze simili a quelle del dinoccolato Jack Skellingotn, sia voluto o sia solo mal fatto.
Colleen Atwood, la costumista storica di Mr. Burton, segna l'ennesimo punto a suo favore, realizzando degli abiti sgargianti e sempre appropriati per i vari personaggi e le classiche decorazioni a righe bianche e nere, vero marchio di fabbrica dell'immaginario di Tim Burton fin dai tempi di Vincent, faranno discretamente capolino in più di una occasione.
Spiace constatare come lo score musicale di Danny Elfman, nonostante la vigorosa partenza della "Alice's Theme" si tramuti presto nella fiera del riciclo con una partitura che, in più di un passaggio, pare una rielaborazione dei celeberrimi motivi composti per altri film di Burton come "Edward Mani di Forbice", "Nightmare Before Christmas" e "Sleepy Hollow". Un repetita che comunque resta sempre più ascoltabile delle anonime note di "Terminator Salvation". Mia Wisikowska, diafana ed esile come una giovane Gwyneth Patrow (e quindi altra similitudine con "Hook"), si cala bene nei mutevoli panni di Alice. Ottimo il doppiaggio italiano: le voci del cast digitale del film, che in originale annovera attori del calibro di Stephen Fry (Lo Stregatto), Michael Sheen (Il Bianconiglio), Alan Rickman (Il Brucaliffo) e Timothy Spall (Bayard) sono doppiati, rispettivamente, da professionisti del calibro di Gianni Giuliano (Telespalla Bob e Billy Nighy ne "I Pirati dei Caraibi"), Oreste Baldini (John Cusack) Sergio di Stefano (la voce del Dr. House), Franco Zucca (Tom Wilkinson, Ben Kinglsey e lo stesso Timothy Spall in "Segreti e Bugie" e "Come d'incanto"). Davvero incomprensibile invece, la scelta per il doppiaggio del Jabberwocky: al posto di mantenere la voce di Omero Antonutti, doppiatore di Christopher Lee ne "Sleepy Hollow" o la trilogia de "Il Signore degli Anelli", è stato ingaggiato Alessandro Rossi colui che oltre a Liam Neeson e Samuel L. Jackson doppia anche Optimus Prime nei film di Michael Bay. Le conclusioni sull'effetto che deriva da questa performance sono tristemente intuibili.

Alice in Wonderland Alice in Wonderland è, oggettivamente, un film privo di particolari difetti: la storia si segue bene, i protagonisti sono calati nella parte, il comparto produttivo è di serie A e, tecnicamente, a parte alcuni elementi come certe animazioni o personaggi in CGI che possono lasciare un po' perplessi, è ben fatto. Il 3D è, per l'ennesima volta, un'aggiunta utile solo per qualche effettino di pop-up che conferma, ad oggi, che l'utilizzo più adeguato ed integrato alla narrazione è stato quello fatto da Robert Zemeckis in “A Christmas Carol” (per chi vi parla in questo momento Zemeckis è stato anche più abile di Cameron). Ciò che manca quasi del tutto è l'estro di Tim Burton (senza contare che la Deliranza segna forse il punto più basso delle carriere di Burton e Depp). Il suo vigore artistico si avverte solo nelle fasi iniziali della pellicola e nello sguardo con cui osserva l'unica vera diversa del film, la rabbiosa Regina Rossa. E' questa sensazione di freddezza, così atipica per una pellicola di Burton, a lasciare una sgradevole sensazione di amaro in bocca: è come se il regista, per motivazioni a noi sconosciute (l'alta quantità di effettistica digitale? Il timore dato dall'utilizzo del 3D? Domande dalla soluzione più ardua del famoso indovinello del Cappellaio Matto), avesse trattenuto il pedale dell'accelleratore della sua proverbiale vena di amore per gli outsider. E in questo, pensiamo che le eventuali ingerenze produttive di Walt Disney Corp. c'entrino come i proverbiali cavoli a merenda. Perché nel 1951 il trio Clyde Geronimini/Wilfred Jackson/Hamilton Luske, capitanato dal leggendario Walt, scegliendo la strada del surrealismo, del nonsense e della psichedelia spinta avevano osato molto più. Per quanto concerne gli anni duemila e considerate le simili premesse narrative, pensiamo che il game designer American Mc Gee con la sua Alice abbia battuto nettamente il regista Tim Burton. Così com'è, Alice in Wonderland è un onesto, appagante e coinvolgente blockbuster.

6.5

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