A Hidden Life, recensione del film di Terrence Malick

Il regista americano torna al cinema narrativo - a modo suo - per raccontarci una toccante storia vera risalente alla Seconda Guerra Mondiale.

A Hidden Life, recensione del film di Terrence Malick
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Sankt Radegund, Austria, 1940: il contadino Franz Jägerstätter (August Diehl) è costretto ad arruolarsi nell'esercito tedesco, portando a termine l'addestramento nella città di Enns. Obiettore di coscienza, egli rifiuta di giurare fedeltà al regime hitleriano, nel 1941 ottiene così il permesso di tornare a casa e occuparsi dell'attività di famiglia insieme alla moglie Franziska (Valerie Pachner).
Due anni dopo viene nuovamente convocato per combattere sul fronte, e a causa delle sue convinzioni morali si propone di lavorare come medico. L'obiezione di coscienza porta all'arresto, il che non è sufficiente per convincerlo a cambiare idea. Mentre aspetta il processo rimane in contatto con la moglie e i figli tramite una serie di lettere, in cui ribadisce il proprio amore per la figlia e l'opinione negativa sul conflitto.

Una vita da svelare

Inizialmente intitolato Radegund, come il paesino dove visse il protagonista, A Hidden Life di Terrence Malick è il nono lungometraggio di finzione del regista texano, presentato in concorso al Festival di Cannes. Un film dalla lavorazione travagliata, con oltre due anni di post-produzione, che lo stesso Malick ha descritto come un ritorno al cinema "tradizionale", con una struttura narrativa vera e propria, dopo il filone più libero e improvvisato iniziato con The Tree of Life (2011) e arrivato a Song to Song (2017). Già in quest'ultimo si era intravista una transizione parziale, poiché tra un flusso di coscienza e intensi primi piani su sfondi più o meno bucolici era possibile intravedere un progetto più strutturato.
In questo caso, con la vera storia di Franz Jägerstätter, siamo nuovamente dinanzi a un progetto con un inizio, una parte centrale e una fine, rigorosamente in quell'ordine (al netto di pochi, brevi flashback).
Una tragedia la cui progressione mette in luce le ingiustizie della guerra senza mai mostrare il conflitto armato, rispettando a suo modo le convinzioni morali dell'uomo al centro di un episodio quasi dimenticato, una vista nascosta che merita di essere (ri)scoperta (il titolo del film, come spiegato all'inizio dei titoli di coda, proviene da un verso di George Eliot).

Una forza di volontà inscalfibile


Il film gioca parzialmente sull'archivio, recuperando immagini tratte dal controverso documentario Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, sottolineando con una certa irriverenza il senso filosofico dell'opera di Malick: laddove la Riefenstahl firmava un pezzo di propaganda hitleriana, per il regista americano è la volontà dell'obiettore a trionfare, concetto espresso soprattutto con l'escamotage tipicamente malickiano della voce fuori campo, che qui dà vita al dialogo epistolare tra i coniugi Jägerstätter, espressione massima della storia d'amore più toccante mai messa in scena dal cineasta, straziante perché mostrata principalmente attraverso il filtro della distanza geografica.

Il voiceover è parte integrante della trama, e permette a Malick di applicare il suo stile a quello che in apparenza è un classico biopic. Gioca anche con il proprio cinema, riesumando i famosi campi di grano che negli ultimi anni hanno suscitato reazioni contrastanti da parte degli spettatori: qui l'elemento bucolico è pienamente giustificato, intriso di una malinconia ancora più profonda del solito dato che anche Franziska, come il marito, è prigioniera, ma in uno spazio aperto in mezzo a una comunità che non può e non vuole accettare la scelta di Franz.

La lingua del nemico

Non è supportato dai collaboratori abituali Emmanuel Lubezki alla fotografia e Jack Fisk alla scenografia, ma la ricostruzione storica di Malick è come sempre impeccabile, e la ricerca dell'autenticità si traduce anche in un casting geograficamente corretto: con l'eccezione dello svedese Michael Nyqvist, scomparso dopo le riprese, e del belga Matthias Schoenaerts, tutti gli interpreti principali sono tedeschi, austriaci o svizzeri (nel caso del compianto Bruno Ganz) e si esprimono con accenti teutonici riconoscibili.

C'è però un secondo livello di approfondimento linguistico, dividendo i dialoghi nella storia stessa tra inglese e tedesco: l'idioma germanico, incomprensibile per assenza di sottotitoli, diventa quello degli esterni, dei nemici, di coloro che, anche in seno alla comunità dove Franz è nato e cresciuto, si sono piegati al nemico, a quel giuramento che lui continuerà a rifiutare: "Heil Hitler!".
Un'idea coraggiosa, leggermente straniante ma ulteriore strumento che impreziosisce la stratificazione di un'opera che, sotto la scorza di un ritorno al cinema "normale", rimane in modo indiscutibile un parto creativo del suo autore.

A Hidden Life In apparenza un ritorno alle strutture narrative tradizionali, il nono lungometraggio di Terrence Malick applica in realtà il suo stile riconoscibile, fatto di immagini bucoliche e voci fuori campo, a una storia classica, vera, tragica. Un episodio quasi dimenticato della Seconda Guerra Mondiale diventa lo scenario ideale per riflettere sulla nozione di giustizia e moralità, con l'aggiunta di un fulcro emotivo fortissimo rappresentato dalla più bella storia d'amore mai vista nel cinema del regista texano.

9

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