Io sono Sofia: intervista a Sofia Peri, protagonista del film su RaiPlay

Raccontiamo la storia di Sofia, una donna di trent'anni nata però una seconda volta a ventotto in un nuovo corpo, dopo la sua transizione.

Io sono Sofia: intervista a Sofia Peri, protagonista del film su RaiPlay
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In un momento storico particolare come quello che stiamo vivendo è purtroppo fondamentale parlare di streaming. Non solo perché diventa seconda occasione di vita per tanti titoli, ma anche per dare lustro e far emergere alcuni prodotti di nicchia, per genere e per tema trattato. La nostra quotidianità non è solo caratterizzata da cambiamenti e incertezze dettati dalla situazione attuale di emergenza, ma anche da problemi e temi ormai incancreniti a livello sociale. Parliamo di uno zoccolo duro, sempre più difficile da scalfire davvero e nel profondo, un masso che schiaccia in maniera soffocante tutte le persone colpite da vicino, loro e le rispettive famiglie.
Si tratta di tutta quella serie di stigmi, pregiudizi e blocchi psicologici che permangono ancora oggi quando si affronta il tema della comunità LGBTQ+, recentemente emerso anche in merito alle scelte compiute dalla'Academy per dare più spazio ai membri di questa categoria di persone, come a tante altre poco rappresentate nei film.
Proprio per puntare i riflettori su esperienze e storie di vita comune che sanno rivelarsi al contempo uniche e straordinarie, Silvia Luzi ha deciso di prendere circa 80 minuti del nostro tempo con Io sono Sofia, il documentario su Rai Play che ci permette di scoprire la storia di Sofia Peri, una ragazza che oggi ha 30 anni, ma è nata "per davvero" da poco tempo.

La realtà di Sofia nell'Italia di oggi

L'identità di genere è ancora oggi una questione delicata, che necessita di essere affrontata con parecchia cura da parte di coloro che non ne sono direttamente protagonisti, e di altrettanto ascolto nei confronti di chi invece è disforico e transessuale.
Avete presente quando il mondo sembra volervi sbattere in faccia qualsiasi porta, senza darvi alternativa alcuna? Sofia lo sa bene, soprattutto da quando lei stessa ha deciso di chiudere la porta in faccia a Edoardo, la persona di cui ha portato le spoglie per oltre vent'anni e che sono state riposte da tempo in soffitta, con lo scatolone dei ricordi che i suoi genitori hanno raccolto e archiviato, non senza fatica e dolore.

Come siamo arrivati a questo documentario? Io sono Sofia è un titolo giunto sugli schermi del Ride Festival di Milano, la manifestazione che ha aperto le porte al mondo queer e non solo, per dare vita a un palinsesto ricco di eventi frizzanti e pensati per promuovere, dal 7 ottobre, la mostra Gender Project.
Un progetto di Veronique Charlotte, fotografa italiana, che si è prefissata l'obiettivo di raccontare 1000 storie diverse per aprire un dialogo fuori dagli schemi e affrontare a viso aperto tutte le realtà e le vite che potrebbero risultare lontane dalla propria esperienza.

Proprio in questa occasione è stato trasmesso sugli schermi Io sono Sofia, il docufilm italiano che racconta il lungo e complesso percorso di transizione di Sofia, e la conseguente e inevitabile trasformazione della sua stessa famiglia. Per approfondire il tema trattato, abbiamo intervistato direttamente Sofia, la protagonista, che ci ha risposto con grandissimo entusiasmo e dovizia di dettagli circa i suoi delicati trascorsi.

L'intervista a Sofia Peri

D: Ciao Sofia, piacere di conoscerti. Partiamo subito con la tua storia personale, per capire meglio chi sei.
R: Nasco nel 1990, passo i primi 10 anni della mia infanzia in maniera molto pacifica e serena, avevo la mia amica del cuore e qualsiasi idea di genere o identità mi era esterna.
Non ho mai avuto interessi particolarmente vicini al mondo maschile, né femminile e, a dir la verità, credo non concepissi proprio l'idea che per gli altri ci potesse essere una differenza tra le due cose.
Poi, come un macigno, è iniziata la pubertà. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ma i cambiamenti mi facevano stare male. La voce che si trasformava mi aveva fatto perdere il ruolo nel coro, e il resto del mondo iniziava a essere sempre più insistente con questa divisione "maschi/femmine" dalla quale mi sentivo così estranea.
Una cosa mi ricordo molto bene, che ho ritrovato perfino scritta sul mio diario dell'epoca: provavo una profonda paura e confusione verso tutti i cambiamenti che la pubertà mi stava causando.
Mi ricordo di aver pensato di tutto: che fosse un esperimento, che fossi malata, che non fossi umana. Di una cosa però ero sicura: io non mi sentivo affatto "ragazzo". Era come vivere un film horror, con parti del tuo corpo che non riconoscevi, e tutti che dicevano che erano assolutamente normali.

Purtroppo, all'epoca, non avevo nessun punto di riferimento: parliamo dell'inizio del 2000, e l'unica cosa che anche solo lontanamente si avvicinasse a quello che sentivo erano le storie di travestitismo.
Ma non era affatto come stavo io, così completamente diverso, e mi convinsi che mi stavo sbagliando. Quindi nascosi tutto dentro di me, profondamente, e non ne parlai mai con nessuno, ma non fu indolore, il risultato era che mi ero annullata. Non vivevo, sopravvivevo: non avevo passioni, non avevo personalità, interessi, obbiettivi.
Poi, un giorno, a 25 anni, nonostante fosse l'età in cui ero sicura che ormai sarei morta, mi accorsi che niente aveva più senso, e decisi di avviare un processo decisamente difficile e doloroso.
Ho iniziato a rimuovere le "coperte mentali" che avevo accumulato e capii che non potevo più vivere così. Così Sofia rinacque, a 25 anni, una ragazzina senza esperienza; inizialmente volevo solo fare la transizione, rimanere quanto più possibile invisibile, riprendermi la vita che non avevo vissuto.


D: Come sei arrivata a decidere di produrre il documentario?
R: Parlando con una collega, mi fece una proposta: "Ti va di raccontare la tua storia?". Inizialmente volevo declinare, non volevo certo espormi, mi faceva molto paura il pregiudizio.
Poi, mi sono messa a pensare a quando avevo 13 anni: una ragazzina impaurita, senza punti di riferimento, esempi, senza nessuna informazione, che si crede sbagliata e aliena. Mi sono chiesta: quante altre persone così esistono? Perché devono soffrire come ho fatto io?

Così ho affrontato la paura e ho deciso di diventare quel raggio di luce, quella persona di cui avrei avuto bisogno io, anni prima.
Il mio obbiettivo è sempre stato questo: se anche una singola persona, vedendo il film, fosse riuscita a rompere quel circolo di odio che ci viene impartito come lezione da quando nasciamo e che assorbiamo dentro di noi, se anche solo una singola persona avesse pensato "Allora non sono sola. Allora è possibile. Allora posso essere felice anche io", avrei raggiunto il mio risultato.
A questo serve il film e tutto l'impegno che ci ho messo da allora. E per aiutare le famiglie, un luogo di fondamentale importanza per tutte le persone queer, a capire che non c'è nulla di sbagliato nel coming out dei figli.
E demolire i pregiudizi, pezzo per pezzo, con quello che una mia amica chiama "l'atto più radicale che una persona trans possa mai compiere: vivere felice".

La relazione con se stessa e con gli altri

D: Come hai vissuto in relazione con gli altri la percezione che avevi di te? Dici che eri chiusa in te stessa ma gli altri come ti "consideravano"? Qual era il loro rapporto e giudizio nei tuoi confronti?
R: Per la maggior parte, ero riuscita a essere praticamente invisibile. Talmente poco interessante e importante che perfino i bulli si stancavano velocemente. Ero brava a scuola, ma senza essere la prima della classe.
Non avevo preferenze sentimentali di alcun tipo, e le persone non rimanevano molto a pensare a me. Il maggiore impatto sociale lo avevo online, dove, forse non a caso anche se all'epoca non ero pienamente consapevole del perché, avevo un'impronta "femminile", e i miei personaggi nei giochi erano tutte ragazze.


D: Come è stato girare il film?
R: All'inizio è stato un po' surreale. Proprio qui entra in campo la bravura di Silvia (la regista), che è riuscita a inserirsi nella vita mia e della mia famiglia con una delicatezza incredibile.

È riuscita a far emergere momenti di brutale verità, di scontri generazionali, di paura vera, di emozioni decisamente che non erano lì solo perché era presente una telecamera.
Il film ha aiutato tutti noi, in famiglia, a fare quel piccolo, grande passo che mancava, per capirci meglio, per riuscire a comprenderci davvero, e fare assieme questo percorso che hanno dovuto, in altri modi, affrontare anche i miei genitori.


D: Parli di odio e di come ci venga impartito come lezione, secondo te perché avviene questo? Come hai riscontrato questo aspetto nella tua esperienza?
R: Purtroppo, la nostra società (e parlo sia di quella italiana, sia di quella occidentale in senso ampio) è ancora estremamente lenta nell'uscire dalla sua impronta patriarcale.
Le donne, da sempre, sono considerate quasi esseri di "serie B"; tutto quello che appartiene alla sfera femminile viene considerato debole, le "donne forti" sono invece coloro che assumono atteggiamenti e ruoli storicamente maschili.
Per questo le donne trans, a maggior ragione, sono viste come dei "paria", come qualcuno che rinuncia volontariamente all'essere potente e privilegiato per mettersi nella schiera di chi è "inferiore", senza contare le grandi dosi di pregiudizio.
Rigidi ruoli di genere, l'idea che la vicinanza fisica ed emotiva sia un elemento di debolezza o addirittura segnale di omosessualità; questo si rispecchia con una violenza, spesso fisica, ma anche psicologica e verbale, verso chi viene visto al di fuori di quel ruolo.

Così le donne trans, o almeno la stragrande maggioranza delle volte, hanno bisogno di tempo per esplorarsi e capirsi, venendo, categoricamente e senza pietà, relegate all'idea di "uomo che si traveste".
Ci siamo mai chiesti perchè l'idea di un uomo che si mette un vestito o una gonna viene usato come battuta goliardica? In che modo è differente da una donna che indossa i pantaloni?
È una cosa che affermo spesso: la vera ossessione per il sesso e il genere non è insita nelle persone trans, ma negli individui cis
(cisgender, ovvero "stesso genere a quello assegnato alla nascita", ndr).

Il coming out in famiglia e il mondo online

D: Ci hai parlato anche di come si debba fare coming out a partire dalla famiglia: com'è andata con la tua? E con le altre persone a te vicine?
R: Con la famiglia avevo tanta, tanta paura. Purtroppo, proprio per quell'odio che gira, tutti gli stereotipi e le notizie di cronaca nera, sorge la sensazione che rivelare di essere trans venga accolto come un tradimento, una tragedia.
E purtroppo, molte persone vivono la cosa proprio in questo modo. Rabbrividisco al solo pensiero, perché non so come avrei fatto ad andare avanti senza il sostegno che mi diede la mia famiglia, dai miei genitori a mio fratello.
Proprio per come ero di carattere, non avevo molte amicizie e tante altre sono sparite nei mesi successivi alla rivelazione.

Altre persone, quelle importanti, non solo sono rimaste accanto a me, ma mi hanno davvero dato un aiuto che credo neanche loro immaginino quanto sia enorme. Debbo a tutti loro la vita.
Un pensiero che spesso accomuna le persone transfobiche è che gli individui trans siano malati, perché quasi la metà di loro pensano al suicidio. Ma il fatto, spesso tralasciato, è che quella percentuale è dovuta a persone che dopo il coming out vengono abbandonate da famiglia, amici, congiunti.
Persone che soffrono non tanto per la propria disforia, ma per il disprezzo che viene riversato su di loro.
La verità è che quando una persona trans ha il supporto e l'amore necessari, la consapevolezza che non c'è nulla di sbagliato, che la propria vita è uguale e può avere tutte le possibilità di chiunque altro, ecco, a quel punto la sofferenza svanisce e rimane solo il fare i conti con la propria disforia. E la disforia è curabile, proprio con la transizione.

D: Parli anche del mondo online: lì è stato più facile o forse diverso esprimere la tua identità femminile? Com'è andata "virtualmente" e su quali piattaforme hai vissuto le esperienze più incisive?
R: Credo sia stato fondamentale Discord, almeno all'inizio. Ci sono diversi server gestiti da persone trans, pensati per persone trans, e lì mi sono potuta confrontare con altri utenti quando ancora non avevo iniziato a ricrearmi una rete di amicizie e contatti.
Ancora mi ricordo la maggior parte di loro, anche se non frequento più quell'ambiente. Tra il confronto, il tenersi aggiornati a vicenda sui progressi fatti, esplorare parti di sé che avevamo paura di esprimere altrove.
Tutto questo è indispensabile per capirsi veramente dentro. Altre piattaforme, forse meno convenzionali, sono stati i videogiochi, particolarmente quelli di ruolo, dove ho trovato un ambiente fantastico, dove sono stata accettata senza nessuna difficoltà.
E non esagero dicendo che la validazione che mi dava essere trattata come ragazza in un mondo che ancora non lo faceva mi ha fatto capire davvero quanto avessi bisogno della transizione. Quella euforia ogni volta che veniva usato il mio nome non la dimentico facilmente.

D: Quindi in qualche modo il mondo virtuale del videogioco ti ha aiutata ad accettare meglio la tua identità e a capire ancora di più chi volevi diventare?
R: Sì, è qualcosa che nel mondo trans viene chiamato, in via ufficiosa, "euforia di genere".
Proprio quella ondata di felicità, serenità e sensazione di giustizia che ci scorre quando il nostro genere interno viene riconosciuto come esterno. Con il tempo, questa sensazione scema fino a diventare parte della normalità (ormai, sono riconosciuta per quello che sono da diversi anni, e non è più un elemento in flusso e divenire), ma all'inizio è uno degli elementi motivazionali più potenti che ci siano.


D: Parlando invece di Io sono Sofia, com'è stato il rapporto con la regista Silvia Luzi? Quali sono i ricordi che porterai sempre con te da questa esperienza?
R: Adoro Silvia, ma la "odio" anche, se posso essere sincera. Ci sono alcune scene, in particolare, che ricordo ancora per quanto fossi terrorizzata all'idea di recitarle.
Ad esempio, quella in cui si osserva il confronto con i miei genitori: lì ho avuto un vero e proprio attacco di panico, sia prima che dopo.
Mi ricordo che è stata lei a capire il mio malessere e ad aiutarmi, tranquillizzarmi, riportarmi in una parvenza di serenità.
Più di una volta, proprio per far emergere emozioni reali, non mi metteva a conoscenza di ogni cosa che sarebbe successa. Come durante l'evento Pride, non sapevo che avrei incontrato la mia famiglia su uno dei carri.
Altre volte, ha saputo prendere al volo delle occasioni, come nella scena del picnic del compleanno, dove sono stata realmente disertata dai miei amici e ci sono rimasta male. Credevo che la scena fosse rovinata, e invece l'ha trasformata in qualcosa di completamente diverso, forse perfino più d'impatto.


D: Quando parli di cura della disforia, si tratta di trattamenti farmacologici uniti a un percorso con uno psicologo? È qualcosa di doloroso? Come l'hai vissuta?
R: Quando parlo di "cura della disforia" intendo semplicemente la transizione.
Una persona trans è conscia della discrepanza tra quella che è la propria identità di genere, interna, ciò che il cervello ha stampato fin dalla nascita riguardo a chi siamo, e quello che è il "ruolo", il guscio esterno, che non rispecchia la nostra mappa mentale.

E non è qualcosa che si può semplicemente ignorare. Perché rimane come un tarlo dentro, che continua a scavare, fino a quando ti mangia tutto: la tua autostima, la tua personalità, la tua felicità.
Per questo ci sono persone trans che fanno coming out molto avanti con gli anni, dopo aver provato a soffocare la verità per tutta la vita, spesso anche per una transfobia interiorizzata molto forte.
Ma a un certo punto, non ce la fanno più. E siccome non esistono sistemi per cambiare la propria identità di genere (checché se ne dica), quello più semplice ed efficace per aiutare una persona che soffre di disforia è "transizionare", cambiare il guscio esterno per adeguarsi a quello che abbiamo dentro.
Che sia dal punto di vista estetico, ormonale o chirurgico, ognuno di noi ha le proprie necessità.
Spesso e volentieri la transizione viene accompagnata da un percorso psicologico e per la maggior parte delle persone è fondamentale.
A patto, però, che non diventi una costrizione, un cancello che bisogna per forza oltrepassare per avere il "permesso" di poter fare quello che si desidera con la propria vita.

D: Per concludere, quali sono i tuoi progetti attuali e futuri? Quale consiglio vorresti dare alle persone che si trovano nella tua situazione e non sanno come cavarsela per fare coming out, oltre a come affrontarne le possibili conseguenze e farsi forza di fronte al bullismo?
R: Il consiglio più importante che posso dare è di darsi tempo. Essere pazienti con se stessi. So bene quanto tutto possa sembrare strano all'inizio, quanta frenesia abbiamo per iniziare. Prendersi il tempo per ascoltarsi, per capire le proprie necessità, le proprie esperienze.
Non esiste persona trans che non sogni di aver iniziato prima. Nessuno di noi inizia in ritardo: il tempo che è servito per arrivare ad accettare se stessi è esattamente il tempo che serve per poter vivere con serenità tutto il resto della nostra vita.
La cosa importante è capire la propria paura, senza soffocarla, e uscirne padroni di essa, pronti a farci sentire sicuri.
Il punto focale su cui gioca chi vuole demolirci e rimuoverci dalla faccia della terra è proprio farci sentire piccoli, indifesi, e dubbiosi.
Un po' come tutti da piccoli facciamo esperimenti, proviamo stili nuovi, alcuni funzionano, altri no, allo stesso modo le persone trans che iniziano il loro percorso hanno bisogno di quei tentativi.
Tutte queste cose sono importanti, e necessarie. Lasciateci fare i nostri tentativi nella nostra nuova vita; con il tempo, impareremo quello che funziona e che è giusto per noi, e troveremo la nostra stabilità.

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