Intervista Giuseppe Tornatore - Ogni film un'opera prima

A tu per tu con Giuseppe Tornatore, che torna al cinema con il particolare Giuseppe Tornatore, ogni film un'opera prima, documentario che lo vede protagonista assoluto.

Intervista Giuseppe Tornatore - Ogni film un'opera prima
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In occasione della presentazione del documentario Giuseppe Tornatore, ogni film un'opera prima, abbiamo incontrato il regista siciliano per parlare del percorso fino a oggi compiuto nel mondo del cinema, e soprattutto quello ancora da compiere. Presenti all'incontro, oltre allo stesso Giuseppe Tornatore, anche il responsabile marketing di The Space Extra e i due registi del documentario Luciano Barcaroli e Gerardo Panichi.

D: Cosa vi ha spinti a realizzare questo progetto?

Luciano Barcaroli: Abbiamo scelto di realizzare questo documentario su Giuseppe quando lui aveva appena terminato Baarìa e doveva ancora finire di fare La migliore offerta. Ci sembrava un ottimo momento per incontrarlo perché si era chiuso un ciclo ed eravamo curiosi di capire un po' di più del suo percorso e di fare il punto sul fil rouge che a oggi ha contraddistinto le sue opere. Anche per noi è stato un modo di ‘rientrare a casa' e occuparci di un autore italiano (dopo il documentario su Terrence Malick, n.d.r.).
Gerardo Panichi: Sono molto contento di aver realizzato questo progetto che sì è tramutato in un'esperienza davvero bella, e a questo proposito ringrazio Stilelibero produzioni per avercelo permesso. Noi abbiamo lavorato molto con gli autori stranieri e Tornatore ci è sembrato sin da subito un autore italiano molto interessante perché è riconosciuto a livello mondiale e ha ricevuto anche un oscar. Ci è sembrato quasi una sfida fare un documentario su di lui e nei molti incontri che abbiamo fatto ci ha raccontato molte cose sul cinema italiano. Non solo, ci ha proiettati in un mondo fantastico di cinema e storia.
Giuseppe Tornatore: In genere succede spesso che mi chiedano delle interviste, ad esempio anche ragazzi che magari stanno facendo una tesi di laurea, e io di solito sono abbastanza generoso per quanto riguarda le interviste ma per quanto riguarda quelle biografiche sono generalmente molto restio. L'idea del documentario sul mio lavoro mi ha colpito per via del tipo di approccio e dell'impianto produttivo che c'erano dietro. Volevano che aprissi loro l'archivio super 8 (in verità ne ho mostrato solo una parte) e volevano vedere le scatole di foto che facevo da ragazzo. Avevano una visione molto articolata del progetto e poi quando ho visto le cose che avevano già fatto ho creduto si trattasse di una proposta importante e che avrei dovuto accettare. Così mi sono lasciato sedurre e loro mi hanno fatto dire un sacco di cose con una strategia molto sottile. Non mi hanno fatto fiumi di interviste, ma ciclicamente mi seguivano e raccoglievano frammenti di materiale, in diverse circostanze e poco per volta. Alla fine mi hanno fatto dire tutto, anche le cose che di solito non racconto. Hanno svolto un lavoro di grande documentazione ed è venuto fuori un ritratto in cui mi riconosco. Là dove non mi riconosco è invece perché il documentario mi sorprende. Mi sembrava presto inizialmente per fare un documentario su di me, perché di solito è un progetto che arriva a fine carriera, ma poi mi ha aiutato a capire anche alcune cose su di me, oltre al fatto che si è instaurato con loro un bel rapporto. Sono due registi che amano tutto il cinema ma poi, ciclicamente, si dedicano anima e corpo a un singolo autore. È un approccio cinefilo insolito e profondo che mi piace molto, perché oggi tutti vogliono amare tutto e ne deriva una grande superficialità. Stilelibero ha messo loro a disposizione dei mezzi di solito non facili da avere, e il loro approccio è stato non timido e in generale sono molto contento del risultato di questo esperimento.

D: Ben Gazzara parla dell'arabo che c'è in te. Io trovo che oltre all'arabo ci sia anche un po' di calvinismo, ti ritrovi in questa dicotomia? Poi ti volevo chiedere, visto che hai parlato dell'infatuazione che sparisce o resta per i progetti filmici, quanto sei ancora preso dal progetto di Leningrado?
Tornatore: Mah, per quanto riguarda le caratteristiche del mio essere, io sono senza dubbio il meno adatto a  parlarne, e poi ci sono delle cose di me che ancora non ho capito fino in fondo. Sicuramente ho delle complessità, duplicità, anche perché sono del segno dei gemelli e dunque non potrei non essere complesso e contraddittorio. Comunque mi piace questa definizione dell'arabo calvinista.
Per quanto riguarda il discorso sull'infatuazione io nel documentario parlavo del mio modo di incubare le idee. Cerco di stare in guardia perché a volte una storia ti infuoca subito e ti dà l'energia necessaria per convincere tutti, e ad esempio è andata così per Una pure formalità. Se poi è una storia che mi piace così tanto da riempirmi ancora le giornate a distanza di anni, allora decido di fare il film. Al contrario, se svanisce, vuol dire che non mi piaceva abbastanza. Leningrado è una storia che ha avuto una lunga incubazione e per cinque anni mi sono occupato solo di quello. Sembrava sempre dovesse essere possibile poi invece il progetto è sempre naufragato. È un progetto che, sì, oggi dopo tredici anni mi piace ancora e ne stiamo parlando, ma non sono sicuro che si potrà fare perché ci sono molte difficoltà.

D: Complimenti per il documentario, soprattutto perché si tratta di un lavoro non meramente agiografico ma con un taglio critico ben preciso. C'è nel metodo di Tornatore una continuità molto precisa che il vostro documentario sottolinea molto bene. Poi volevo sapere com'è dirigere gli attori nella lingua originale del film e poi doppiarli? Infine mi interessava sapere qualcosa sulla scena della riunione che c'è nel documentario. Sembra che tu sia abbastanza con il coltello tra i denti. Volevo sapere perché è stata filmata e se quella scena è indicativa della tua determinazione nel fare un film.
Tornatore
: Quando sono sul set se lo dirigo nella mia lingua o in un'altra lingua faccio ovviamente una fatica diversa, anche se c'è da dire che quando giro in francese o in inglese in genere il copione diventa la lingua del film. Quando ho diretto Depardieu in Una pura formalità ad esempio ero in grado di dargli indicazioni anche sulle pause, però poi quando lui la sera mi chiedeva di andare a cena avevo bisogno del traduttore. Durante le riprese conoscevo il copione a memoria e il mio francese era praticamente perfetto. Per doppiare di solito si delega ad altri, ma quando io riadatto e dirigo il doppiaggio in quei casi la cosa mi diverte. È comunque un'operazione interessante, e poi amo molto il doppiaggio perché consente di fare molte cose.
Per quanto riguarda invece la storia della riunione, devo dire che io non amo farmi riprendere quando lavoro, ma quando ho fatto quel film un ragazzo mi chiese di riprendere tutto e fare un backstage con il materiale, e io acconsentii. Poi il backstage non si fece più, ma il materiale è rimasto conservato per molti anni e, alla fine, quando sono arrivati loro per girare questo documentario mi hanno chiesto anche quello e mi hanno chiesto cosa fosse successo in quell'occasione. Una pura formalità è stato un film complesso da far partire. Aveva avuto un avvio molto veloce e io non avevo sentito abbastanza complicità nei miei collaboratori quindi in un momento di crisi stavo cercando di convincerli del fatto che la complicità dovesse essere ancor più forte. È stato un progetto complesso a monte perché in quella fase io venivo da due progetti che non erano partiti, tanto che avevo detto a un certo punto a Vittorio Cecchi Gori: "Stabilisci il budget massimo che pensi di voler perdere per fare un film con me". E lui mi aveva detto la cifra di 4 miliardi, che al tempo era una cifra più che generosa. Il patto era che lui non dovesse sapere di che progetto si trattasse e che io avrei accettato un budget bloccato con la quota che lui aveva stabilito. Alla fine, quando vide il film mi disse: "Non ho capito un cacchio ma è un grande film!". Comunque per tornare al filmato della riunione, in realtà io avevo qualche perplessità a usarlo nel documentario, ma loro mi hanno convinto che fosse importante.
Gerardo Panichi: Grazie per i complimenti, siamo contenti soprattutto del fatto che abbiate percepito il documentario come una lettura critica del lavoro di Giuseppe, perché anche noi pensavamo che fosse un regista conosciuto ma in realtà sconosciuto. Inizialmente avevamo anche avuto l'idea di intitolare il documentario Lo sconosciuto. La riunione ci aveva colpito per la passione e la determinazione di Giuseppe, che secondo noi sono due delle caratteristiche principali del suo lavoro.
Tornatore: Come ho già detto il loro progetto mi ha convinto subito per come lo avevano argomentato. Si trattava di un lavoro non solo celebrativo, ma mosso da una vera curiosità critica, ed è il motivo per cui ho accettato. In realtà era proprio l'unica prospettiva che avrei potuto accettare, anche perché non amo le cose decise a tavolino e anche quando mi fanno le interviste in genere non voglio mai sapere le domande prima.
Luciano Barcaroli: A testimonianza della sua spontaneità devo dire che ogni volta che abbiamo provato a fargli ripetere la risposta a una domanda, non veniva mai come la prima. Con Tornatore è buona la prima, non si ripete mai.

D: Quali sono i motivi dei progetti che sono saltati?
Tornatore: Nella vita di un regista è normale che ci siano film fatti e film non fatti e la seconda categoria è sempre quella più numerosa. La normalità è cercare delle storie, elaborarle e poi lasciarle nel cassetto. Poi a volte accade un fatto incidentale e faccio il film, tantissime altre no. Il discorso è che di alcuni progetti non fatti si sa che non sono andati in porto, ma di tanti altri nessuno saprà mai. La cosa più comune che può accadere è che un film sia produttivamente troppo complesso oppure che non convinca un produttore o magari che non abbia il cast che vorresti. Tuttavia vi dico che quando saltò quel secondo film con Cecchi Gori, un assistente mi telefonò per dirmi che l'avevo fatto saltare perché non ero abbastanza convinto. Quella spiegazione un po' mi turbò perché lui sosteneva che la colpa fosse solo del regista (cioè mia) e che bisognava fare sempre anche i film di cui non si è sicuri.

D: Qual è stata l'occasione dell'incontro con Fellini a Cinecittà?
Tornatore: In quel momento stavo girando Una pura formalità a Cinecittà, e gli Studios erano praticamente vuoti perché si lavorava solo al mio film. Fellini aveva finito di ipotizzare uno dei suoi Block notes ma il progetto si era arenato e lui era venuto per riprendersi alcune carte. Federico sapeva che stavamo girando con Polanski, Depardieu, Rubini e mentre io ero impegnato a girare avvertii un'ombra all'ingresso del commissariato. A conclusione della scena chiamai lo stop e mi sentii dire: "Sembrate un drappello di soldati giapponesi cui ancora nessuno ha detto che la guerra è finita da un pezzo". Rimase un po' con noi e poi andò via.

D: Hai scoperto qualcosa di te che non sapevi attraverso questo documentario?
Tornatore: Sì in realtà ho scoperto qualcosa di me. Di solito passo per uno chiuso e col tempo mi sono quasi convinto di esserlo, ma vedendo il documentario ho capito che non è così. Con gli interlocutori che sanno conquistarsi la mia fiducia sono in realtà molto generoso. Poi certo ho scoperto anche che faccio delle pause eccessive quando parlo, ma a loro piacciono perché evidentemente io sono proprio così.

D: Mi permetto di tornare ancora su Leningrado, è vero che è in fase di pre-produzione?
Tornatore: Ogni volta che faccio una conferenza me lo chiedete e io continuo a dirvi che non è sicuro, e poi non c'è niente di più vago della parola pre-produzione. Solo parlare di un progetto o fare dei sopralluoghi a volte può voler dire essere in fase di pre-produzione. Per quanto riguarda Leningrado abbiamo rimesso in discussione il film e abbiamo parlato di molte cose che rientrano nella categoria della pre-produzione, ma siamo ancora in un contesto molto vago. Però vi dico che se non si farà stavolta, io questo film non lo farò più e farò solo pubblicare la sceneggiatura. Poi c'è anche un piano b del quale però non vi dico nulla.

D: Non le piacerebbe fare di nuovo film di genere, magari sulla criminalità?

Tornatore
: Ho proposto progetti di quel tipo più di una volta ma i produttori hanno paura. Una volta avevo scritto un soggetto che mi incuriosiva molto a tema ‘fantacriminalità' ma al produttore non piacque, e anche un altro paio di volte mi è capitato di avere reazioni simili, però non nascondo che mi piacerebbe e non è detto che non accada. Ma, no, non è il mio piano b di adesso. E comunque lo so che scriverete quello che volete perché siete bravissimi a trasformare le dichiarazioni e a trovare titoli eclatanti. Una volta un giornalista mi chiese se volevo fare un film sulla mafia e io risposi che mi sarebbe piaciuto ma che non avevo ancora nessuna idea. Allora il giornale titolò la mia intervista "Mafia: dammi un'idea".

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