Intervista C'era Una Volta a New York: James Gray

Quattro chiacchiere col regista del nuovo film con Marion Cotillard, Jeremy Renner e Joaquin Phoenix

Intervista C'era Una Volta a New York: James Gray
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Già che si trovava a Roma in veste di presidente della giuria del Festival Internazionale del Film, il regista James Gray ne ha approfittato per promuovere il suo bel melò C'era una volta a New York (The Immigrant, in originale), con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix e un soprendente Jeremy Renner in un ruolo drammatico, dove risulta perfino più convincente che nelle classiche performance action. Noi il film lo abbiamo visto a Cannes (qui la nostra recensione), ma stavolta abbiamo avuto l'occasione di incontrare il regista faccia a faccia, per un'intervista a 360° dove non ci si è limitati a parlare della pellicola, dato che Gray, persona gradevole, garbata e piuttosto loquace, si è dimostrato ricco di voglia di raccontare è di raccontarsi.

Perché ci teneva così tanto a raccontare una storia d'immigrazione?
Perché la storia dell'umanità è storia di immigrazione. Il che per me è una cosa positiva: è importante che nel tempo le culture si incontrino e si arricchiscano. La componente ‘latina' degli Stati Uniti ha portato sviluppi inimmaginabili fino a 15 o 20 anni fa. È un modo per le culture di rinfrescarsi e rivitalizzarsi, per non restare ferme. Però immagino che tutto questo non sia trasparso dalla visione del film a Cannes, dove è stato preso semplicemente come un "drammone". Credo che i grossi festival non siano la condizione ideale per vedere film.

Lei viene da una famiglia ebrea di origine russa. nel film c'è forse qualche elemento autobiografico?
Alcune immagini vengono dai loro racconti. La lotta per il cibo, la difficoltà di procurarsi anche solo una banana. Quello che ho cambiato è stato il credo religioso, perché volevo basare il film su una parabola di peccato e redenzione che non esiste nella religione ebraica mentre c'è nella fede cattolica. E nel film fa un'apparizione mia nonna.

Com'è stato girare a Ellis Island?
Disastroso. E' un posto aperto ai turisti tutto l'anno, non rimaneva che girare di notte. Ma ci tenevo tantissimo a realizzarlo nel posto dove veramente sono passati tutti quegli immigrati, è proprio lì che hanno camminato i miei nonni. Per me questa era la cosa più importante, non avevo minimamente pensato ai problemi logistici. Ho capito solo dopo in che guaio mi ero cacciato e quanti soldi sarebbe costato in più, rispetto a una semplice ricostruzione.

E riguardo alla scelta di Marion Cotillard?
È stata la mia prima e unica scelta. È bella, ma non solo. Esprime sentimento, con i suoi occhi grandi. Non è una bellezza da supermodella, standardizzata. Mi piaceva la sua faccia. Ho pensato il ruolo per lei e lo stesso è stato per Joaquin. Per Renner è andata diversamente. Non avevo pensato a lui ma quando l'ho visto ho capito che era identico al personaggio che doveva interpretare, ispirato a un prestigiatore veramente esistito. Guardi qui... (tira fuori il cellulare e mostra una foto. Effettivamente la somiglianza è impressionante. NdR.)

Inizialmente il film doveva chiamarsi ‘Lowlife'...
Sì, ma a parte il fatto che c'erano già dei libri con un nome simile, non mi convinceva, era troppo complesso, troppo ironico. Ho preferito un titolo ‘pucciniano', diciamo così. Semplice e immediato: come se fosse un'opera, che guardasse al passato ma non troppo lontano. Un'epoca pre-moderna. Volevo evocare una dimensione poetica che i film moderni hanno perso e che invece era propria del cinema muto. Non so perché, pensate al genio di Chaplin e al finale di Luci della città. Abbiamo perso quella dimensione drammaturgica, l'ultimo regista che l'ha toccata un po' è stato Kubrick con 2001 - Odissea nello spazio.

Inserisce nei suoi film anche un sottotesto simbolico?
Superficialmente, ho un approccio classico. Racconto una storia chiara, però anche ambigua. Una forma di illusione sperimentale, se vogliamo. Quel che noto è che oggi i film sono tutti simili l'uno all'altro, nella forma, nelle ellissi, ci sono dei cliché che sono tipici di Hollywood. Io cerco qualcos'altro e forse sono stupido perché magari il pubblico lo capirà solo tra dieci anni, ma non posso farci nulla, questi sono i film che mi piacciono e questi so fare. In The Immigrant non parlo soltanto d'immigrazione, ma è una storia di co-dipendenza tra i personaggi. Dipendono gli uni dagli altri e si autodistruggono. È una storia di amore perverso. Il personaggio di Phenix costringe quello di Marion a prostituirsi, le fa fare delle cose orribili, eppure lei alla fine lo perdona e lo tira anche fuori di prigione. Il perdono è un concetto francescano. È facile per noi giudicare: lui è un essere rivoltante. Ma se fossimo stati noi a vivere in quel luogo e in quel tempo, cosa avremmo fatto? Cosa faresti tu se ti rubassi il portafoglio e ti abbandonassi in mezzo a un posto sperduto senza telefono, senza documenti, senza che tu sappia una parola della lingua del posto? Dei loro usi e costumi? L'istinto di sopravvivenza ti porta a fare cose terribili. Io sono ebreo, non praticante. Mi chiedo come mi sarei comportato se mi fossi trovato in Germania alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, con l'economia agli sgoccioli. Magari sarei stato un nazista, e questo mi terrorizza. Ma ho sentito un'intervista una signora di 95 anni che era stata deportata ad Auschwitz: nonostante tutto, lei perdonava i suoi aguzzini. Perché, diceva, ‘il potere del perdono è con me e non con loro'. E il potere del perdono è una componente potentissima nell'umanizzazione dei personaggi.

Diceva che tutto questo però, secondo lei, traspare difficilmente in una visione ‘da festival'. Lei sa che qui a Roma, l'anno scorso, ha vinto un film che, tra pubblico e stampa, aveva convinto ben poche persone?
No, non lo sapevo. Ma che le devo dire? Anche le giurie vivono in una bolla di sapone, spesso. I festival sono sempre strutturati allo stesso modo. Prima proiettano i film che, si sa, piaceranno a tutti, pubblico e giuria, poi arrivano gli altri, che non vincono niente. A parte che trovo proprio stupido il concetto di assegnare un premio. ‘Miglior film'? E cosa significa? Per dirle, La vita di Adèle, che ha vinto Cannes. Per carità, è un bel film, ma sai già da prima come si svolge e come va a finire. Con Htichcock questo non ti capita. Non mi fraintenda, io amo i festival e amo essere qui a Roma, vedo amici, bevo buon vino, mangio bene. Penso che l'Italia sia il più grande paese del mondo.

Forse perché non ci vive...
Mah, sa, è difficile vivere ovunque. Sono stato da poco in Cina e mi sembrava di non respirare. Ovunque sento ostilità e rabbia. È un brutto momento. Tutti lottano per la sopravvivenza personale. Ma in America in particolare io penso che siamo pazzi: abbiamo l'universal health care eppure vedo gente scontente, che quasi si fa venire un colpo perché, non so, non gli funziona perfettamente Internet. Io adoro la vostra cultura.

Allora forse siamo noi italiani che non l'adoriamo abbastanza...
Forse, però ce l'avete. Avete Puccini, Visconti, Fellini. E d'altro canto tutte le culture rigettano sé stesse. Miles Davis era un genio e ci sono voluti anni perché lo riconoscessero. È sempre necessaria una distanza culturale, o temporale, per apprezzare le grandi cose. Più sono grandi e più è necessario allontanarsi, per vederle.

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