Intervista ACAB - Conferenza stampa

Stefano Sollima e il suo cast ci raccontano ACAB, il duro film ispirato al libro di Claudio Bonini edito da Einaudi e con protagonisti Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti e Domenico Diele.

Intervista ACAB - Conferenza stampa
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Esce oggi, nei cinema italiani, ACAB - All Cops Are Bastards, film diretto da Stefano Sollima con protagonisti Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti e Domenico Diele. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Bonini, edito in Italia da Einaudi, ed è basato su alcune storie vere e su diversi, tragici, fatti di cronaca degli ultimi dieci anni. "A.C.A.B." è l'acronimo di "All cops are bastards" ("Tutti gli sbirri sono bastardi") un motto che, partito dal movimento skinhead inglese degli anni Settanta, è diventato nel tempo un richiamo universale alla guerriglia nelle città, nelle strade, negli stadi. Nel film, Cobra (Piefrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini) sono appunto tre "celerini bastardi". "Celerini", così si sentono, più che poliziotti. Sulla loro pelle hanno imparato ad essere bersaglio perché vivono immersi nella violenza. La violenza di un mondo governato dall'odio, che ha perso le regole e che loro vogliono far rispettare anche con l'uso spregiudicato della forza.
Abbiamo incontrato a Roma regista, sceneggiatori e cast, e questo è il resoconto di quanto ci hanno raccontato.

Con che spirito è stato realizzato il film? Per certi versi sembra ricordare un po', con le dovute differenze, 300 di Zack Snyder.

Stefano Sollima: L'idea di ACAB era proprio di fare un film di genere. La vicinanza con lo spirito gladiatorio di 300 c'è, e si nota anche nel graffito presente nella caserma. Ma l'idea principalmente era quella di fare un film di genere ma intelligente, che affrontasse indirettamente dei temi importanti. Ma in fondo è un poliziesco, come se ne facevano negli anni '70.

Daniele Cesarano: I celerini del nostro film vivono in attesa dell'azione, dello scontro fisico. C'è molta fisicità in loro, del resto giocano anche a rugby. Quindi ci interessava rendere questa 'compressione' e successiva 'esplosione'. La comunanza con 300 mi fa piacere, in effetti è un film 'maschile', ma non è il nostro modello di racconto.

Che contributo avete avuto dalle Forze dell'Ordine alla realizzazione del film? E una volta finito, avete avuto modo di mostrar loro la pellicola? Che feedback avete ricevuto?

Stefano Sollima: Durante la produzione non abbiamo avuto un effettivo supporto logistico o di mezzi da parte delle Forze dell'Ordine. Nello stesso tempo, non hanno 'ostacolato' il film, perché ci hanno permesso di girare davanti al Parlamento e davanti al Viminale senza problemi e senza ostruzionismo di alcun tipo. Hanno avuto un atteggiamento abbastanza distante, diciamo. Gli abbiamo fatto vedere il film, ma non so poi a che 'livello' sia stato visto, né abbiamo ancora ricevuto una reazione ufficiale da parte loro, e non so se l'avremo, a questo punto. Dal punto di vista personale, molti ci hanno detto che il film corrispondeva al vero, altri, più istituzionalmente, ci hanno detto che il mondo riportato sul film non è quello del Reparto Mobile d'oggigiorno, anche perché negli ultimi sette-otto anni [dunque dopo i fatti di cronaca riportati anche nel film, immaginiamo, ndr] molte cose sono cambiate.

Favino, come si è preparato per questo ruolo? È cambiato il vostro atteggiamento rispetto al Reparto, dopo aver recitato in questo film?

Pierfrancesco Favino: Ci siamo preparati, in primo luogo, fisicamente, e tecnicamente con un minimo delle competenze dei veri poliziotti. Abbiamo provato anche il rugby, che effettivamente è affine al reparto anche per via delle formazioni, che in parte ricordano quelle usate in strada. Poi anche noi attori usiamo il nostro corpo per lavoro. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è chiaro che prima hai un certo tipo di percezioni, una volta che scopri casa c'è dietro qualcosa cambia. Capisci che certe cose, alcune sensazioni, escono spontaneamente dentro di te. Io mi sono sempre professato pacifista. Poi però è logico che finché non provi sulla tua pelle la minaccia di qualcuno non puoi dirlo con cognizione di causa. Noi fortunatamente facciamo un mestiere che ha a che fare col corpo e con l'esperienza fisica, quindi le idee preconcette che abbiamo poi vengono a scontrarsi con quello che poi tu senti accadere nel tuo corpo e nella tua mente quando vieni chiamato a interpretare qualcosa. Io bandisco la violenza, ripeto, ma vi posso assicurare che anche se era finzione, la sensazione di stare con un casco in testa, dietro ad uno scudo, con davanti un gruppo di persone numericamente più grande, che ti tira addosso sassi e ti sputa in faccia, è qualcosa che anche a te, civile, attore, ti provoca qualcosa dentro. Senti risalire qualcosa che ha a che fare con l'aggressività naturale dell'uomo. Io però non sono un uomo addestrato a saper controllare quelle cose lì. Il fatto di avere un mestiere che mi richiede di essere in una situazione immaginaria non solo con la testa ma anche fisicamente, mi cambia e mi fa vivere le cose in maniera diversa. Prima avevo un'esperienza generalizzata, ora è più diretta tramite l'esperienza.

Filippo Nigro: Il pregiudizio c'era. Io l'ho avuto. Poi come attore ti imponi di non averlo, ma è inevitabile. È gente che è abituata ad usare, ad amministrare la violenza. E i limiti entro i quali viene usata questa violenza sono molto labili. Spesso si ricostruiscono un senso di legalità, di Stato, personale. I nostri personaggi inoltre sono addirittura reduci del g(, che non è rappresentato nel film ma aleggia e li ha in qualche modo compromessi tutti e quattro. La percezione, sì, è cambiata. Nelle nostre simulazioni abbiamo visto come l'odio sale naturalmente verso chi ti spinge, ti attacca.
Poi ci siamo preparati, come diceva Pierfrancesco, anche fisicamente, anche col rugby, per aumentare lo spirito di gruppo. C'era chi era già più allenato e atletico, tipo Giallini [ridono], ma la preparazione è stata fondamentale.

Marco Giallini: Io per prepararmi fisicamente ho mangiato per mesi solo riso e tonno, una tristezza incredibile! [ridono] Io, prevedendo questa domanda sul pregiudizio, avevo una mezza intenzione di portare mio fratello, che all'epoca di botte dai celerini ne ha prese tante. Ma erano anche altri tempi. Ad ogni modo, è stato davvero un film duro.

Andrea Sartoretti: La mia opinione, più che essere cambiata, si è arricchita. Anche se nel film non partecipo alle cariche, ho presenziato anch'io agli allenamenti per entrare nella mentalità. Ho percepito l'immensa tensione di una guerra civile quotidiana. La mia opinione a tutt'oggi ha più colori.

A settembre 2011 è uscito Black Block. Fra poco a Berlino sarà presentato Diaz. La vostra uscita era, in qualche modo, programmata rispetto a questi altri film? Compensa i punti di vista?

Stefano Sollima: ACAB è tratto da un libro uscito alcuni anni fa. L'uscita non è precalcolata per stare in mezzo a questi due, figuriamoci. Genova non l'abbiamo raccontata direttamente perché non volevamo raccontare nuovamente una storia già largamente rappresentata. Noi non volevamo raccontare i fatti noti, quanto parlare dell'odio insito nella società in cui viviamo. Un punto di vista inusuale.

Carlo Bonini: Il film è efficace nel rappresentare la storia come nel libro, cioè senza dicotomie. Vedi l'odio che risponde ad altro odio. Come può sembrare naturale, in certi casi quasi giusto, che sia, prima di renderti conto che non è così. Abbiamo discusso molto dell'eventuale rischio morale della cosa. Ma creando libri o film devi liberarti di questo 'ricatto morale', sennò non racconti nulla di importante. Io quando ho cominciato a fare le ricerche per il libro e ho incontrato i tre protagonisti io ho dovuto fare un'operazione su me stesso mica da ridere, perché c'erano cose che mi raccontavano che mi dava fastidio anche solo ascoltare, e a maggior ragione raccontarle, ma è un passaggio obbligato. Il film ha in più la potenza dell'immagine. E qualcuno, chiaramente, ci verrà a rimproverare questa rappresentazione cruda. Però appare chiaro anche come funzionano le cose e cosa non funziona, in questo modo. Poi confidiamo nell'intelligenza di chi legge e di chi va al cinema.

C'è chi pensa che facciate un'apologia dei celerini, chi invece, vista la rappresentazione degli stessi, che in un certo qual modo li criminalizzate. Cosa c'è di vero. Secondo voi perché un celerino entra a fare parte del Reparto?

Stefano Sollima: Lavorando su ACAB ho capito che è molto difficile, sbagliato, generalizzare. È chiaro che dentro a uno stadio con diecimila ultras non ci possono mandare certo le crocerossine. Per cui immagino ci sia una sorta di attitudine in loro, però omologarli al 100% non è possibile, perché comunque ognuno ha le proprie posizioni. Non si può fare un tutt'uno. Non volevamo criminalizzare i poliziotti in toto, nelle nostre scene. Abbiamo mostrato delle cose successe, ma senza ideologizzazione.

Pierfrancesco Favino: Vorrei dire una cosa sulla presunta 'morale'. Ma in realtà, nella maggior parte dei casi, si parla di 'moralismo'. Questo film sta scatenando su internet, dure reazioni presso chi si pone per forza di cose da un lato della barricata. Ma il nostro film è 'morale' nel senso che ci racconta le cose come stanno. Non c'è nessuno che ti impone una verità, ti dice 'quelli sono brutti, quelli sono belli'. Quello è moralismo. È proprio la differenza fra queste due cose che consente la lettura di questo film. Stefano ha fatto un lavoro egregio nel raccontare le cose come sono senza chiedere mai di prendere le parti di qualcuno. Ma bisogna capire la differenza fra moralismo e morale per capire le vene del film.

Claudia Santamaria e Alessandro Roya hanno detto di aver fatto del suo libro una fonte di ispirazione. Anche gli attori di ACAB hanno cercato in lei una sorta di mentore?

Carlo Bonini: No. Io rispetto il lavoro fatto dal regista e dagli sceneggiatori. Ho parlato con loro, all'inizio, per spiegare il punto di vista del libro, ma ho ritenuto tenermi fuori e che loro attraversassero questa esperienza, questo passaggio emotivo da soli, al di là della traccia scritta del libro.

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