È solo la fine del mondo: Xavier Dolan, analisi di un (ex) enfant prodige

La crescita di Xavier Dolan è inarrestabile e dopo la consacrazione con il Gran Prix al Festival di Cannes, si appresta a stupire il mondo.

È solo la fine del mondo: Xavier Dolan, analisi di un (ex) enfant prodige
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C'è un'aura inconfondibile nei suoi film. Una luce, un colore, un profumo che non somiglia nient'altro e già questo è un privilegio cinematografico che possono vantare solo i più grandi. Bastano pochi fotogrammi; lo sguardo ritrova quelle atmosfere che nel corso degli anni sono diventate sempre più riconoscibili, il cuore si aggancia irrimediabilmente allo schermo senza possibilità di fuga, il corpo inizia a muoversi dentro un turbinio di sentimenti contrastanti e si resta lí, incollati alla poltrona, in balia di uno tsunami emotivo. Questo è il cinema di Xavier Dolan. Un percorso di crescita sbalorditivo, che probabilmente non è arrivato ancora alla maturazione definitiva, (sarebbe drammatico il contrario a ventisette anni) ma che con con il suo ultimo film - È solo la fine del mondo - trova una sublimazione totale, una vera e propria chiusura del cerchio aperto ormai 7 anni fa. Per chi come lui ha sempre difeso e sostenuto l'importanza delle emozioni nel cinema, non c'è luogo più intimo e naturale della famiglia per esprimere la gamma più sterminata di sentimenti e contraddittorietà. Ad eccezione di Les Amours imaginaire infatti, in cui si addentrava in uno strano ed intrigante triangolo amoroso, studiando i comportamenti ambigui nei confronti dell'oggetto del desiderio, gli altri film della sua breve ma densissima filmografia sono stati tutte declinazioni diverse di rapporti familiari intensissimi. Dall'esordio di J'ai tué ma mère in cui ancora diciannovenne desiderava ardentemente uccidere la madre, è passato all'esplosione variopinta di Laurence Anyways, dove amore e paura confluivano nel dolore di una coppia pronta lottare con una sessualità ingabbiata in un corpo non proprio. Ha maturato poi una consapevolezza hitchcockiana col tango ambiguo e misterioso di Tom à la ferme, in cui desiderio e pulsioni sessuali si avvolgevano reciprocamente intorno ad un lutto familiare; con Mommy infine si è lasciato andare ad un grido d'amore liberatorio tornando all'origine di quel rapporto materno travagliato, che nel corso del tempo si è fatto vitale ed imprescindibile.

L'ultimo, struggente, È solo la fine del mondo, tratto dall'omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce e Gran Prix all'ultimo Festival di Cannes, completa questa meravigliosa parabola autoriale, addensa su di sé un oceano infinito di sentimenti contrastanti e ci pone di fronte all'irragionevolezza di rapporti familiari radicati in un passato che c'è più, o che forse non c'è mai stato. 12 anni di assenza, 12 anni di vita vissuta nell'ombra della propria maschera, 12 anni di segreti e finzioni, 12 anni di fuga per non soffocare nel proprio nido. Poi il ritorno forzato per un ultimo saluto, non sarà la fine del mondo, è solo un pranzo in famiglia. Eppure tutto sembra così inadeguato. Il sentirsi straniero in casa propria, l'impossibilità di comunicare e di riconoscersi con chi dovrebbe conoscerti meglio al mondo. Vecchi e nuovi rancori insuperabili che riemergono da ferite mai rimarginate ed infiammano un fiume di discussioni ataviche tra animali tesi sul punto di esplodere; il vuoto che sembra potersi riempire solo di altro vuoto. Non rimangono che gli oggetti per ritrovare un'ultima volta quelle sensazioni sbiadite, ma anch'essi diventano cumuli di ricordi assopiti dal tempo, pronti a colpire come solo la nostalgia e i rimpianti sanno fare. Il rischio di scadere nella retorica è altissimo, ma l'occhio di Dolan non si limita al banale racconto di un dramma familiare, ci dona piuttosto uno sguardo personalissimo, tenero e commosso, che riesce a mischiare inscindibilmente le emozioni più estreme in modo talmente viscerale da non permettere più di coglierne il punto di confine; l'odio finisce per sprofondare nell'amore, in un battito di ciglia l'amore è già diventato odio e tutto questo è semplicemente sbalorditivo. La parole si fanno pesanti come pietre e proliferano in una valanga multiforme; vengono urlate, sussurrate, balbettate, suggerite, singhiozzate, sputate frettolosamente, ansimate, trattenute, recriminate, eppure questo profluvio verboso, paradossalmente sembra dare ancor più potenza ad ogni più piccola manifestazione mimica.

Non chiamatelo enfant prodige

La straordinaria grandezza dell'enfant prodige canadese sta tutta rinchiusa in quei piccolissimi particolari che per chiunque altro potrebbero apparire insignificanti; senza bisogno di spiegazioni, dimostra ancora una sensibilità preziosa nel coglierli, lasciandoli agire sottotraccia con una potenza asfissiante. Nei silenzi pietrificanti, negli sguardi logoranti, nelle rughe di una fronte aggrottata, nelle carezze delle lacrime sulla pelle, nella miriade di smorfie facciali, nella connessione istantanea di due occhi sconosciuti che si confidano intimamente quel segreto inconfessabile, c'è un mondo, il mondo di Xavier Dolan. Nonostante in passato avesse già dimostrato una capacità rara di trovare soluzioni stilistiche originali, qui è di nuovo sorprendente come riesca a rendere innovativo un elemento primordiale del linguaggio cinematografico come il primo piano, plasmandoci intorno un'intero impianto registico riconducibile soltanto al proprio immaginario. Ed è incredibile come questo non sia un mero esercizio di stile, quanto il modo più diretto per esondare tutte le emozioni che cova dentro. Lo schermo si riempie di volti giganteschi, l'intensità dei primi e primissimi piani si imprime indelebile nella testa, i dettagli si rincorrono senza soluzione di continuità in un montaggio che trova incredibilmente il modo di assemblarli, ogni rallenty getta in un'apnea dalla quale si fa sempre fatica a riemergere. A differenza dei lavori precedenti, stavolta non c'è più spazio per alcun tipo di catarsi. La tensione sale lentamente come in una pentola a pressione, l'atmosfera diventa estenuante, le emozioni scorrono a fiumi attraverso i tagli di luce caldi e crepuscolari che infrangono i visi.

Nouvelle Vague 2.0

Dolan è alla spasmodica ricerca di un piccolissimo spiraglio di felicità, ma finisce per sprofondare in un oblio esistenziale di una profondità umana insostenibile. Nel panorama cinematografico contemporaneo è davvero l'unico regista in grado di riportare in vita l'anima della Nouvelle Vague declinandola in chiave pop-moderna e donandole una nuova forza. Basterebbe guardare cosa riesce a tirare fuori dai suoi attori per capire la portata del suo talento, perché se è vero che si avvale di professionisti formidabili, è altrettanto vero che li spinge alle vette più alte della loro carriera. In particolare il personaggio di Marion Cotillard è un autentico miracolo di scrittura tale da renderlo una delle caratterizzazioni più acute degli ultimi anni di cinema. Un lavoro mostruoso di sottrazione e sottigliezza su una figura che nella sua apparente marginalità, diviene il fulcro nevralgico dell'intero film, quello in cui tutti i tormenti esistenti confluiscono e rimangono intrappolati. Dal primo folgorante incontro, lei diventa il corpo per il cuore dello spettatore, e sembrerà di vivere ogni suo più piccolo gesto sulla propria pelle. Un orologio a cucù sembra scandire il ritmo del tempo che scorre inesorabile; il sole tramonta, la luce vira improvvisamente la propria tonalità dall'azzurro al giallo, "l'apocalisse" è oramai inevitabile. Speri in cuor tuo che qualcosa possa ancora tornare a muoversi e invece... stacco di montaggio, schermo nero, musica... scorrono i titoli di coda, è il momento di andare, ma non c'è più neanche la forza di alzarsi, è solo arrivata la fine del mondo.

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