The Hateful Eight: cosa significano i 70mm

Quentin Tarantino ha deciso di girare il suo ottavo film completamente in pellicola a 70 millimetri. Un lavoro enorme che però non è solo un vezzo pubblicitario, ma un regalo a tutto il pubblico

The Hateful Eight: cosa significano i 70mm
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Il 70 millimetri, come concetto, è entrato oramai nella testa dei più anche in Italia. L'intero panorama cinematografico ha riscoperto l'esistenza della pellicola, il vecchio modo utilizzato per la registrazione e per la riproduzione dei film, da quando il cinema è nato. Ce lo raccontava Giuseppe Tornatore in Nuovo Cinema Paradiso, mostrandoci i problemi, le difficoltà, le preoccupazioni e le grandi attenzioni che bisognava prestare alla pellicola e a tutti gli oggetti che permettevano all'immagine registrata di andare dal proiettore al muro, dal dietro le quinte alla platea, alla sala cinematografica. Il ritorno del 70 millimetri sulla bocca di tutti, però, lo si deve soprattutto a Quentin Tarantino, che ha deciso di girare il suo The Hateful Eight, il suo ottavo film, con la costosissima Ultra Panavision: qualcuno ha pensato potesse essere una trovata pubblicitaria, tale da spingere il pubblico a una spesa maggiore al cinema solo per potersi definire tra l'elite prescelta, qualcun altro, invece, per fortuna, ha ben compreso il senso di questo gesto romantico, artigianale. Ma in sostanza, qual è la differenza tra il girare un film in 70mm e girare un film non in pellicola?

La tecnica cinematografica è un mondo che non prendiamo spesso in considerazione quando ci troviamo dinanzi a un film, a un buon film. Non ci soffermiamo a pensare alle inquadrature, a come la telecamera avrà mai fatto ad arrivare così in alto, come può avvenire un'inquadratura aerea, o, quando una stanza gira se è la videocamera a girare o la stanza in sé: tante domande banali, poste così, ma che sovente non fanno parte della nostra esperienza. La tecnica cinematografica, però, riesce sempre a sorprendere in qualche modo e l'esempio più lampante, negli ultimi anni, lo abbiamo avuto grazie a Xavier Dolan, il giovanissimo regista canadese che ha conquistato, anni fa, il pubblico di Cannes con Mommy: nella drammatica pellicola che raccontava il brusco rapporto madre-figlio, Dolan aveva deciso di riprodurre l'intero film con un aspect ratio di 1:1, insomma un quadrato, con le bande laterali nere a coprire il resto dello schermo. Una visione molto claustrofobica, che aveva quindi soppresso il rapporto tra larghezza e lunghezza, che veniva però ristabilito proprio dalle mani del protagonista, durante la famosa e iconica scena dello skateboard, in cui l'attore allarga l'inquadratura riportando l'aspect ratio a 1,85:1, che insieme al 2,39:1 è il rapporto d'immagine più utilizzato nel cinema. Una tecnica che trasmetteva una potenza emotiva incredibile e che interrompeva all'improvviso quel concetto di oppressione del film, liberando la vista e il cuore dello spettatore che tornava, quindi, a una visione d'insieme più completa.
Perché questa disamina sull'aspect ratio, però? Semplicemente per arrivare al concetto di Academy ratio, cioè il rapporto d'immagine fissato a 1,37:1 che l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, la giuria che assegna poi l'Oscar ogni anno, stabilì come proporzione ottimale. Tale rapporto è stato utilizzato costantemente fino al 1952, salvo poi essere ripreso da Wes Anderson in Grand Budapest Hotel. Dopo gli anni '50 fu fisiologico il cambio perché gli schermi rettangolari iniziarono a essere più grandi e si rischiava di lasciare il tanto fastidioso spazio nero ai lati del film, cosa che accade oggi se in televisione viene trasmesso un film degli anni '40, per intenderci, il che è causato anche dal passaggio dai 4:3 ai 16:9. Nel medesimo periodo storico è la pellicola a 35mm che viene utilizzata per tutte le riprese: ce la ricorderemo sicuramente nelle macchine fotografiche per le quali poi serviva lo sviluppo della pellicola, appunto, ma anche il cinema, dal 1909, si affidò a tale formato. Lunga più di 2,5 chilometri, capace di proiettare l'immagine a 24fps, aveva un fotogramma da 24 millimetri per 18, con un aspect ratio di 1,33:1, proprio come gli schermi in 4:3. Quando poi il cinema da muto passò ad avere il sonoro, lo spazio del fotogramma, in larghezza, diminuì, per lasciare spazio a quelle che dovevano essere le tracce sonore: da 24 millimetri, quindi, si scese a 21x18, con un rapporto di 1,16:1. L'ultima modifica è quella che ci porta all'1,37:1 dell'Academy, perché arrivando a lasciare dello spazio nero tra i fotogrammi e riuscendo a riguadagnare un millimetro dalle tracce sonore, si arrivò alla misura del fotogramma da 22mm x 16mm. Chiaramente accanto alle tracce audio venivano anche calcolati i fori, che servivano per agganciare la pellicola al proiettore e farla così riprodurre.

In ogni caso col passare degli anni la pellicola è diventata sempre più dispendiosa, sempre più complessa da utilizzare, sia in fase di montaggio che in fase di riproduzione, compresi e annessi anche i pericoli di eventuali bruciature, per questo quindi arriva il cinema digitale. George Lucas lo usò già in Star Wars: Episodio I, poi Danny Boyle riuscì a portare The Millionaire all'Oscar nel 2009, convincendo l'Academy per la fotografia, che sdoganava quindi il concetto di film patinato. Non c'è bisogno di grandissime spiegazioni circa il funzionamento del digitale, perché è quello che facciamo quotidianamente noi con le nostre macchine fotografiche, con le nostre videocamere: si registra tutto su un formato digitale e non c'è bisogno di sviluppare più nulla. Più veloce, più efficace, più sicuro, più avvezzo al meccanismo da macchina di montaggio che è diventato il cinema. Eppure ci sono tantissimi registi che continuano a sostenere che il vero cinema sia quello artigianale, quello analogico, quello in pellicola. Tra questi, appunto, Quentin Tarantino. La pellicola ispira nostalgia, mentre il digitale fornisce sempre immagini "lucidate", che a livello sentimentale potremmo addirittura definire fredde, vuote, che necessitano sempre di una fotografia molto ispirata per poter soddisfare al meglio e riempire il cuore. Anche il tremolio della pellicola all'inizio trasmette un senso di nostalgia, di ritorno al passato, quello che chiaramente i più giovani non hanno potuto vivere, ma che per un senso di vintage potrebbero comunque apprezzare, con occhi candidi. Lo si nota guardando The Hateful Eight: la nitidezza dell'immagine è immensa, i dettagli sono vivi, il contenuto delle inquadrature è reale e tangibile. E soprattutto, più grande.

La pellicola, infatti, ha diversi formati: abbiamo parlato di quella a 35mm, che è stata la più diffusa nell'industria, ma esistevano anche da 8, da 16 e, appunto, da 70, quella usata da Tarantino. La differenza sta nella larghezza dell'immagine, nel maggior spazio a disposizione, che permette di inserire molte più tracce audio, che regalano poi l'esperienza che abbiamo potuto vivere all'Arcadia di Melzo, a Milano, per la proiezione stampa di The Hateful Eight: un audio che ti rincorre anche alle spalle, grazie al Dolby Atmos installato nella Sala Energia. In 70mm nella storia ricordiamo Ben Hur nel 1959 e Lawrence d'Arabia nel 1962: l'audio viene inciso su quattro piste magnetiche, per fornire 6 canali sonori, mentre l'immagine occupa 65 millimetri: occupando un'area di 1728mm quadrati, la qualità dell'immagine della pellicola a 70mm è superiore di circa 6 volte rispetto a quella della pellicola a 35mm, ma anche nel costo è decisamente più dispendiosa. La declinazione, poi, dei 70mm avviene attraverso l'IMAX e l'Ultra Panavision, la stessa di Ben Hur e di Tarantino, che l'ha utilizzata con la MGM Camera 65 (in disuso dal 1966), con un aspect ratio di 2,76:1. La maggior parte dei film, a oggi, ha un aspect ratio di 1,85:1 e di 2,39:1, pertanto è facile immaginare quanta distanza intercorra tra la normalità della consuetudine e l'opera di Tarantino.
Il lavoro di Quentin Tarantino con The Hateful Eight rimarrà sicuramente nella storia. Un lavoro epocale per un film del 2015, un anno schiavo del digitale e che è riuscito a trovare soluzioni facili e immediate per realizzare film: il cineasta americano, invece, ha preferito tornare indietro, rivivere la gioia del passato, quando si poteva toccare la pellicola con mano, quando i fotogrammi erano dinanzi agli occhi di chi girava, per un'immagine più viva. Difficilmente si potrà ora immaginare un ritorno della pellicola in pompa magna: qualcuno l'ha già usata per alcune scene, come Christopher Nolan in Interstellar e ne Il Cavaliere Oscuro, ma restano momenti sporadici, da apprezzare per l'animo di quei registi che vogliono ancora un cinema artigianale, che sappia di vita e non di patinato.

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