Speciale Maleficent: strega cattiva o eroina queer?

All'apice del 'revisionismo' Disney troviamo Malefica, "villain" sfaccettato e anticonformista

Speciale Maleficent: strega cattiva o eroina queer?
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Ammettiamolo: a Hollywood, il desiderio di restyling dei classici non è mai stato così forte, e pure casa Disney non fa eccezione. Del resto, se la moda dei remake ha preso piede ormai da diversi anni, gli eredi del compianto Walt non potevano certo restarsene con le mani in mano. Ma il remake “filologicamente corretto”, si sa, di rado regge il confronto con l’originale: tanto più se, come nel caso del patrimonio cinematografico targato Disney, gli “originali” sono capolavori dell’animazione che hanno cresciuto almeno tre generazioni di spettatori. Esiste tuttavia un’altra problematica insita nell’operazione remake, una problematica di natura più schiettamente culturale / ideologica: lo “spirito del tempo”. In tal senso il caso di Maleficent, rilancio in grande stile, in formato live-action e con l’immancabile ausilio del 3D de La bella addormentata nel bosco, risulta davvero emblematico: pur considerato tuttora un cult intramontabile del catalogo Disney, La bella addormentata, trasposizione animata della celebre fiaba di Charles Perrault, appare oggi, al di là del fascino estetico e degli irresistibili battibecchi fra le tre fatine, decisamente anacronistico.

Tradizione fiabesca e post-femminismo

Il Classico Disney, in fondo, risale al lontano 1959, quando alla Casa Bianca c’era Dwight Eisenhower, in cima alle hit-parade stazionavano i Platters con Smoke Gets in Your Eyes e il grande modello femminile, negli Stati Uniti (ma non solo), era la perfetta casalinga incarnata da Donna Reed nell’omonimo show televisivo. Non c’è da stupirsi troppo, perciò, se la Principessa Aurora aveva una cascata di fluenti capelli biondi, assomigliava ad una versione meno “peccaminosa” di Lana Turner (senza accenni di spigliatezze sessuali alla Peyton Place, per intenderci), trascorreva in letargo una buona metà del film e, in sostanza, si limitava ad attendere di essere miracolosamente risvegliata dal Principe Filippo di turno (molto più simile ad un fotomodello che non all’altro Filippo di sangue blu, marito di Elisabetta d’Inghilterra), per poi convolare a nozze in tempi record. D’altra parte, l’attitudine delle prime Principesse Disney (e non solo le prime) non differiva molto dal suddetto cursus honorum; e se perlomeno nella figura di Cenerentola si intravedeva una sacrosanta aspirazione alla scalata sociale (lei, poverina, abituata a lavorare in nero, senza traccia di assicurazione sanitaria o di contributi), Aurora al massimo si era accontentata di crescere in campagna, fra gli scoiattoli e le galline.
Insomma, l’archetipo rappresentato dalla “bella addormentata”, tra una naïveté esasperata e un totale assoggettamento al ruolo della sposina graziosa e decorativa, di un’utilità narrativa appena al di sopra del maggiordomo che annuncia “Il pranzo è servito!”, oggi pare essere, se non proprio scomparso, quantomeno relegato ad un conservatorismo fuori tempo massimo (o tutt’al più ai concorsi di Miss Italia). Il modello femminile dominante, perlomeno nel cinema odierno, è piuttosto quello di Elsa, la Principessa (Regina) anticonformista e ribelle che canta a squarciagola Non la d... ehm, Let It Go, e che all’amore di un Principe belloccio antepone l’affetto per la sorella Anna. Non a caso Frozen - Il regno di ghiaccio ha polverizzato il box-office mondiale, mentre Elsa, con la sua filosofia alla Sisters Are Doin’ It for Themselves, si è trasformata a sorpresa in un’icona del post-femminismo in salsa disneyana - o quantomeno, di un’idea di “Principessa delle fiabe” assai più moderna e progressista di quella biondina svampita e narcolettica di Aurora.

Malefica e il Girl-Power

E arriviamo pertanto a Malefica, la sola, vera protagonista del film di Robert Stromberg, ma anche la maggiore “attrazione” del classico Disney del 1959, nel quale non faticava a dominare la scena grazie allo charme luciferino, al look dark che includeva corna e mantello nero e, nell’edizione italiana, allo strepitoso doppiaggio di Tina Lattanzi (in effetti, cosa c’è di più azzeccato di una strega che parla con la voce altisonante di Joan Crawford?). A 55 anni di distanza, Malefica ha conservato il medesimo abbigliamento (giusto un accenno di scollatura in più), può contare ancora sul fedelissimo corvo-spione, ma soprattutto si impadronisce del film - a partire dal titolo - senza accontentarsi del semplice ruolo di villainess di turno, ma reclamando per sé il compito di veicolare i valori del “nuovo corso” della Disney. E forse non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che ad interpretarla è una delle attrici più influenti d’America: quell’Angelina Jolie (qui pure produttrice esecutiva) figlia di un mostro sacro della New Hollywood quale Jon Voight, moglie di un sex-symbol del calibro di Brad Pitt, appena 24enne e già premiata con un Oscar per Ragazze interrotte e ricompensata l’anno scorso dall’Academy con una statuetta speciale per il suo proverbiale impegno in campo umanitario.
[Attenzione: da qui in poi, l’articolo contiene possibili spoiler sul film!]
Da grandi poteri derivano grandi responsabilità: e la Malefica di Angelina Jolie non si sottrae di certo a questo ineluttabile assioma, trascendendo il risentimento della socialite d’accatto disposta a tutto pur di calcare un red carpet (neanche fosse Valeria Marini) per scegliere di ergersi a portavoce di una dignità femminile in grado di resistere a soprusi, tradimenti e cuori infranti. Più che una strega delle fiabe, l’eroina di un film di Pedro Almodóvar. E se l’Elsa di Frozen - come altre Principesse Disney prima di lei - si proponeva come idolo di un rinnovato femminismo, magari dai toni levigati ma dallo spirito inossidabile, la nuova Malefica si spinge addirittura oltre, e assieme al ruolo della donna forte e indipendente arriva ad abbracciare un ideale di “sorellanza” dal quale trapela un’aderenza nemmeno troppo velata alla causa LGBT. Malefica come paladina dei “diritti arcobaleno”, insomma? A volersi richiamare all’iconografia visiva, ci sarebbe da notare pure che gli zigomi posticci e appuntiti della Jolie sono identici a quelli sfoderati da Lady Gaga nel video di Born This Way, brano pro-gay per eccellenza del decennio. Quel che è sicuro è che il film di Stromberg è percorso da un sottotesto omoerotico come non se ne vedevano dai tempi del famigerato Codice Hays, ovvero quando a Hollywood non si poteva parlare a chiare lettere di omosessualità e di altri argomenti tabù, ma l’astuzia degli sceneggiatori trovava mille modi per aggirare tali divieti ricorrendo a finissime allusioni (un esempio su tutti, Nodo alla gola di Alfred Hitchcock).

Allegorie e Sottotesti

Se buona parte degli spettatori degli Anni ’30, ’40 e ’50 erano abbastanza smaliziati da cogliere al volo tali riferimenti, il pubblico odierno, benché meno abituato a certe sottigliezze, non dovrebbe comunque avere difficoltà nel rilevare questa componente in Maleficent. Innanzitutto, partiamo dalla “pietra dello scandalo”: l’amore malriposto di Malefica per Re Stefano, iniziato in tenera età e destinato a scontrarsi con una delusione cocente, nel momento in cui la purezza dei sentimenti della fata in nero viene calpestata dal carrierismo rampante del futuro sovrano, che prima sussurra parole dolci, poi la fa bere dalla sua fiaschetta (i pericoli dell’alcol: ogni film Disney ha pur sempre un intento didattico!) e infine le trancia le maestose ali, fonte del suo potere come per Sansone i capelli. L’amputazione delle ali di Malefica come allegoria del femminicidio e della violenza sulle donne: altro che il mancato invito a un battesimo, come tutti noi che ci eravamo sempre immaginati la Malefica del film Disney in un ipotetico antefatto, mentre si domandava dubbiosa, un po’ come Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.
Il taglio delle ali assume dunque il rilievo di un vero e proprio mito eziologico, con la violenza come motore del successivo conflitto narrativo. Ed ecco la piccola Aurora crescere nella canonica casetta di campagna, allevata dalle tre fatine pasticcione, due delle quali hanno le fattezze di Imelda Staunton e Lesley Manville (già: se per la terza avessero ingaggiato Brenda Blethyn, Maleficent sarebbe stato un perfetto dramma intimista di Mike Leigh), e che scatenerebbero l’ira funesta di qualunque addetto ai servizi sociali. Assistita dalla silenziosa presenza di una Malefica dall’inedito spirito materno, nell’arco di pochi minuti di film Aurora si ritrova rigogliosa sedicenne, con il volto dell’attrice Elle Fanning, e non esita a correre fra le braccia della sua “fata madrina”, manifestando il desiderio di piantare in asso le tre fatine per vivere con lei in un bosco incantato in cui non vigono le costrizioni sociali del regno di Stefano.

Un happy ending a tinte arcobaleno

Ma sfortunatamente la maledizione si compie, Aurora si punge il dito con il fuso di un arcolaio (che nel film del 1959, con un pizzico di maliziosa immaginazione, poteva quasi adombrare un simbolo fallico con funzione di spauracchio per le adolescenti al culmine della pubertà) e cade nel sonno letargico dal quale potrà risvegliarla solo il “bacio del vero amore”. E qui dovrebbe entrare in scena il Principe d’ordinanza, giusto? Ebbene, niente di più sbagliato: perché al povero Filippo, ragazzotto imberbe introdotto a casaccio un paio di sequenze prima, è riservata la sorte più bislacca e ingloriosa negli annali dell’aristocrazia Disney, ovvero essere letteralmente trascinato dalle tre fatine al capezzale di Aurora, spinto a baciarla con sua profonda riluttanza e, di fronte al palese fallimento del maldestro tentativo, scaraventato fuori dalla camera della Principessa (e dalla trama del film, tutto sommato). Ecco quindi tornare in azione Malefica, disperata per la sorte dell’adorata Aurora, ma in grado di risvegliarla poggiando le labbra sulla fronte della giovane, mentre il corvaccio ribadisce sornione: “Ecco il bacio del vero amore”.
Spezzato il maleficio, le due protagoniste possono finalmente riabbracciarsi e, in virtù di una nuova consapevolezza di se stesse, sono pronte ad affrontare il bieco Re Stefano, personificazione di una dispotica autorità patriarcale impegnata a negare l’anelito all’indipendenza femminile (non a caso l’intera storia è costruita sulla lotta immotivata mossa da guerrieri brutti, sporchi e cattivi per porre fine al placido regno di Malefica). La sconfitta del sovrano / padre-padrone è il viatico per un happy ending declinato in chiave squisitamente femminista: in un ameno bosco popolato da creature fiabesche, una sorta di meravigliosa comune hippie, si celebra un matrimonio, o piuttosto un’unione non meglio definita. Le prime figure mostrate nel bel mezzo della scena, infatti, sono proprio Aurora e Malefica, in atteggiamento di casta ma affettuosa intimità, mentre solo in un secondo momento l’inquadratura si allarga e in un angolo dello schermo fa capolino il malcapitato Principe Filippo: sposino ripescato al novantesimo minuto o semplice invitato ad una cerimonia d’altro tipo? Il film si chiude su questa sostanziale ambiguità, ma non prima che la voce narrante - della stessa Aurora - ci abbia informato della lieta unione del proprio regno con quello di Malefica (una sorta di comunione dei beni?). Insomma, al di là dei giudizi - in generale non troppo lusinghieri - di carattere cinematografico ed estetico, Maleficent potrà vantare in ogni caso un indiscutibile merito: aver consegnato alla storia della Disney, attraverso questa strega tenebrosa ma dal cuore d’oro, un’eroina dal piglio inequivocabilmente progressista e quasi esplicitamente pro-gay.

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