I peggiori: Round table sul cinema di genere italiano

In occasione dell'arrivo al cinema de I peggiori, regista e protagonista hanno tenuto a Roma un incontro sul cinema di genere insieme ad altri colleghi.

I peggiori: Round table sul cinema di genere italiano
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Cosa è accaduto al cinema di genere italiano dopo la fine degli anni Ottanta? Come mai la nostra violenta, sporca e cattiva cinematografia che ci regalò autentici classici della celluloide dell'orrore e serrati poliziotteschi a base di coinvolgenti inseguimenti automobilistici ha finito per rintanarsi in rassicuranti commediole e prodotti racchiusi in due camere e cucina, degni della più banale fiction televisiva? Negli ultimi tempi, forse, tra un Lo chiamavano Jeeg robot di Gabriele Mainetti e Veloce come il vento di Matteo Rovere, qualcosa sembra aver cominciato a muoversi ed a stimolare le coscienze dei nostri produttori, i quali pare stiano ricominciando ad osare di più. Non a caso, è arrivato nelle sale cinematografiche I peggiori, che, primo lungometraggio diretto dall'attore Vincenzo Alfieri, vede lo stesso improvvisarsi eroe mascherato a Napoli insieme ad un fratello interpretato da Lino Guanciale. E, proprio per discutere di una intuibile e probabile rinascita del genere nostrano, affiancati dal critico cinematografico Gianmaria Tammaro e dai Sydney Sibilia e Ivan Silvestrini rispettivamente autori di Smetto quando voglio e 2night, hanno incontrato a Roma il pubblico nel corso di una round table moderata dal giornalista Francesco Alò.

Smettono quando vogliono

Esiste un gruppo di artisti che intenda condividere questo percorso di genere?

Sydney Sibilia: Sì, ma credo che poi, essendo il nostro un lavoro collettivo, il gruppo si crea per forza. In Italia, per molto tempo, è diventato tutto registro-centrico, mentre il nostro lavoro si basa sulla collettività, sul fare le cose insieme. Tu scrivi una storia, poi, però, viene filtrata da tutta una serie di professionalità. Più che una squadra, è una generazione che si riunisce e prova cercare di capire che aria tira. È un po' quello che abbiamo fatto io e Matteo (Rovere, nda) con Groenlandia. Senza confronto è un po' strano produrre intrattenimento. È inutile chiudersi in se stessi e provare a proporre una visione completamente personale. Credo che la squadra sia tutto, è fondamentale. Per me, almeno, lo è stato. Da Salerno ho conosciuto Matteo e facevamo i corti insieme, ci incontravamo ai festival e ognuno di noi parlava all'altro di ciò che stava preparando. Secondo me, bisogna sempre ragionare in termini di industria e smetterla di farlo in termini di singolo autore. Si è creata una asprissima competizione, forse nelle generazioni precedenti alla nostra, e, quando un film italiano va male, vanno male tutti gli altri, perché l'industria perde quote di mercato e fa un passo indietro. Quando, però, un film italiano va bene, tutta l'industria fa un passo avanti. Perché noi andiamo al cinema? Ci andiamo per provare delle emozioni. Io, per esempio, a quattordici anni andai a vedere Independence day e mi sembrava bellissimo, perché c'era Willy il principe di Bel Air che menava ad un alieno. All'epoca non lo sapevo, ma c'era una certa chimica che mi riportava al cinema per riprovare quella sensazione.

Ivan Silvestrini: Io credo che noi ultimamente ci siamo annusati parecchio, ma ci dovremmo frequentare anche un po' di più, perché, secondo me, oltre a questa dovremmo cercare delle situazioni in cui ricreiamo una sorta di movimento come quelli che vi sono stati nel cinema italiano o, più recentemente, nel Dogma in Danimarca. Sarebbe bello parlare un po' di più, perché, effettivamente, noi siamo quelli a cui piace il cinema di genere e che hanno avuto occasione di provare a farlo. Penso che potremmo collaborare di più.

Sydney Sibilia: Secondo me, dobbiamo evitare di parlare del periodo d'oro del cinema italiano, perché nasci con il complesso di inferiorità che quelli bravi ormai sono morti e noi non sappiamo fare niente. Invece, non deve essere così.

Gianmaria Tammaro: Sentendo i discorsi di Sydney e Ivan, mi è venuto in mente quel bellissimo gruppo della nuova Hollywood fatto di registi e amici come Spielberg e Lucas, che hanno fatto cose straordinarie. L'importanza del gruppo è fondamentale per un'arte come il cinema, perché ci si scambiano idee, si sta insieme. E nel gruppo che si crea la vera industria ed è bello vedere stasera questi talenti riuniti insieme.

Vincenzo e Lino cosa ne pensano?

Vincenzo Alfieri: Se non scaricate I peggiori e lo vedete in sala, Lino uscirà a cena con tutte le donne qui presenti (ride). Io penso che questo lavoro non cambi le persone, ma enfatizzi delle doti caratteriali. Fortunatamente, oggi sono seduto qui insieme a colleghi come Sydney, che non avrebbe alcun motivo esserci. Lo ringrazio davanti a tutti perché vi fa capire che persona sia. Questo lo dico anche di Francesco Alò e Gianmaria Tammaro, oltre che di Ivan Silvestrini, con il quale ho iniziato sul web. Devo a lui se poi ho capito l'importanza del web e, insieme a mia sorella, abbiamo creato una società di produzione. Io, come voi, ho assolutamente bisogno di credere che questo lavoro vada fatto in comunione. Con i Lucisano mi sono trovato benissimo, perché, nonostante siano un'azienda mega, sono comunque una famiglia storica del cinema e che tratta i loro progetti con un certo tipo di amore. Per carità, è un mondo strano, competitivo, e noi siamo psicopatici a scrivere certi film. Forse, poi, chi li produce è più psicopatico di noi. Però, a volte è andata bene, a volte andrà male. C'è bisogno sicuramente di più coraggio. Io penso che noi siamo la New Italy, perché abbiamo una voglia di fare che ci si porta via. Abbiamo anche un momento storico di grande depressione delle idee, quindi, se ne hai di originali posso essere accolte molto positivamente. Guardate Smetto quando voglio e Mine.

Lino Guanciale: Essere qui, per me, è stata una prova personale notevole, perché di carattere sono estremamente orso, evito la comunità perché mi sembra sempre di non avere nulla di interessante da dire. Credo si tratti di un complesso di inferiorità rispetto allo scambiarsi idee, che non ha colpito solo me. O sei un animale da festa, o uno che sta a casa per conto suo ed esce quando lo chiamano a fare provini. Quindi, per me stasera significa quasi entrare in una dimensione nuova. Adesso io vedo una specie di onda che, un po' per istinto, un po' per background comune, ha preso su diversi artisti che cercano in qualche modo una configurazione. Come diceva giustamente Sydney, veniamo da decenni registocentrici, che hanno fatto del regista un datore di lavoro da cui ci si presenta ad un'audizione facendo il più possibile i simpatici, ma con un unico sottotesto scritto in fronte: "Famme lavora'" (ride). Siamo una generazione cresciuta con le stesse cose e, effettivamente, è bene che cominciamo a scambiarci i numeri di cellulare.

Non solo i... peggiori!

Avete percepito in questi ultimi anni una sintonia artistica e culturale con alcuni film di vostri colleghi?

Ivan Silvestrini: Un anno e mezzo fa è uscito quello che io ho pensato sia stato il primo vero film di genere da paura che ho visto in Italia: Veloce come il vento. Un film impeccabile, non sapevo cosa dire. Ho piacevolmente invidiato, con affetto, Matteo per il tempo che ha trascorso su quei circuiti a inseguire macchine ed inscenare incidenti. Nel film ci saranno quattro cinque incidenti. Lode a chi è riuscito a mettere insieme una produzione simile e grande Matteo, tra l'altro nato come me il 22 Gennaio del 1982. Ci incrociamo spesso ai festival, sono anni che voglio lavorare con lui. In qualche modo ce la farò.

Gianmaria Tammaro: Io assocerei una data di inizio di questo scombussolamento del cinema italiano a Non essere cattivo di Claudio Caligari. Perché il motivo fondamentale per cui questi film vanno sostenuti è che sono innovativi, ma profondamente italiani. Utilizzano luoghi, persone e linguaggi della vita di ogni giorno dell'Italia. I peggiori, per esempio, ciò lo fa splendidamente, perché Napoli non viene rappresentata una volta tanto solo come Scampia e degrado, vi è un'anima nei luoghi che vediamo. Poi, quando ho visto Smetto quando voglio, con quella fotografia, mi sono detto che stava cambiando tutto. Quindi, secondo me, è importante preservare l'italianità di questi film.

Sydney Sibilia: Se faccio questo lavoro, è proprio perché mi piace un certo tipo di cinema che andavo a vedere, non solo roba americana. Il cinema italiano ha avuto un periodo che era cool, poi, però, ha smesso di esserlo. Intanto, siamo fortunati perché non tutte le nazioni hanno una quota di mercato cinematografica tale da poter giustificare un'industria. Il cinema italiano è qualcosa di secolare e che è sempre stato bellissimo, ma, ogni tanto, cambia di qualcosa in base ai gusti di chi lo fa. Io mi sono innamorato da piccolo di ciò che vedevo e, ora, cerco di emulare quelle cose. Quindi, non si tratta di un nuovo cinema italiano, ma del cinema italiano che si evolve naturalmente. Però dobbiamo essere bravi, perché, in un momento storico in cui chiunque può guardare materiale audiovisivi in un telefono cellulare, dobbiamo essere consci del fatto che la gente, per vedere al cinema un film, deve pagare otto euro e dobbiamo meritarceli.

Vincenzo Alfieri: Negli ultimi tre anni sono usciti veramente tanti film, ma uno che mi ha colpito quando ero piccolo fu Santa Maradona di Marco Ponti, che trovai un vero capolavoro.

Eli Roth, regista di Hostel, si chiedeva in questi anni cosa fosse accaduto al cinema italiano, visto che lui conosce i nostri film di genere del passato, ma vede che ora non se ne fanno più...

Lino Guanciale: Quando io ero piccolo, ci si era incaponiti sul fatto che il cinema di spettacolo noi non potessimo farlo. Forse per ragioni culturali, materiali, ovviamente per una democratizzazione di mezzi a disposizione. Si era creato un folle pregiudizio, perché, in realtà, mio padre da giovane andava a vedere i poliziotteschi o Terrore nello spazio, non il cinema d'inseguimenti americani.

Sydney Sibilia: Perché i nostri film erano fatti meglio. È la CGI che ha cambiato tutto, ma ai tempi dell'analogico nessuno riusciva a fare ciò che facevamo noi.

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