Da Blade Runner 2049 indietro fino alle origini: ecco chi è Denis Villeneuve

Il suo Blade Runner 2049 esce oggi nelle sale, il che ci regala l'occasione di ripercorrere la carriera di uno dei più grandi cineasti contemporanei.

Da Blade Runner 2049 indietro fino alle origini: ecco chi è Denis Villeneuve
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Ha tratti fisiologici certamente androgini ma in parte delicati, Denis Villeneuve, forse uno dei più grandi filmmaker contemporanei, ma il suo cinema, prepotentemente d'autore, è di una potenza incalcolabile. La sua visione è totale e copre l'intero arco produttivo delle opere che dirige, donandogli identità e tratti riconoscibilissimi, specie in termini di ritmo e tensione, elementi che riesce a gestire sempre ottimamente grazie a un profondo studio della scena, dalle inquadrature all'utilizzo delle musiche. Ma come alcuni dei più grandi, prima di salire nell'Olimpo dei cineasti più richiesti e apprezzati della sua generazione, Villeneuve ne ha dovuta macinare di strada, anche se sempre guidato da una passione che, come da lui stesso rivelato, è nata proprio con la visione di Blade Runner di Ridley Scott, il film che ha totalmente polarizzato i suoi sogni e l'allora intrinseca ma grande ambizione nel diventare un affermato regista. Questo accadeva a 15 anni, quando l'autore era in piena fase adolescenziale e passava le sue giornate ad ammirare graphic novel francesi, a leggere Isaac Asimov e vedere Star Wars, fantasie che hanno riempito la sua giovinezza, accompagnato la sua crescita e che lo hanno assistito nel momento di focalizzazione delle sue capacità, trasformatesi già solo a 21 anni in vere competenze professionali. Villeneuve cominciò infatti la sua carriera girando cortometraggi, di cui il primo, in stile documentaristico, fu La Course Destination Monde, seguito nel 1994 dal più famoso REW-FFWD, girato in Giamaica e commissionatogli dall'Agence Candienne de Developpement International. L'anno successivo, a soli 28 anni, partecipa al film collettivo Cosmos, che viene presentato alla Quinzaine des Realisateurs al Fastival di Cannes del 1996, instradandolo già verso il mercato internazionale. Ma è nel 1998 che, ormai conclusa quella che possiamo definire una "gavetta" obbligata, Villeneuve sforna il suo primo film, Un 32 août sur terre, dramma sentimentale da lui scritto e diretto che lo porta al gradino successivo della gerachia festivaliera di Cannes, nell'Un Certain Regard di quell'anno, e a vincere il premio come Miglior Film al Festival di Namur.

L'affermazione e il successo di Prisoners

Villeneuve è ormai tenuto d'occhio dai più grandi festival europei, e infatti già nel 2000 il suo secondo film d'autore, Maelström, raccoglie moltissimi premi in diverse e importanti vetrine del mercato cinematografico, specie il Premio FIPRESCI al prestigioso Festival di Berlino e la Nomination (la seconda) agli Oscar come Miglior Film Straniero. Anche qui le venature sentimentali del cinema villeneuviano sono preponderanti, dato che il dramma in questione racconta di una donna che decide di suicidarsi dopo aver investito e ucciso un uomo. Salvatasi, però, interpreta la sua sopravvivenza come una rinascita, innamorandosi del figlio della vittima. Già nelle prime produzioni del regista c'era l'amore per l'immagine ricercata, la cura del dettaglio e la voglia di sorprendere, il tutto relegato nel macro-genere drammatico ma già volto a sfamare la sete di esistenzialismo dell'autore. Il suo cinema è infatti umano, nel senso che va a scavare nel profondo dell'animo dei suoi personaggi, tra importanti interrogativi su tematiche generali quali vita, amore o morte, ma senza mai dare risposte pregne di comprensibilità, anche se paradossalmente ricche di significato. Dal 2000 al 2009 c'è poi una pausa, interrotta solo nel 2006 con la produzione di un cortometraggio, 12 Seconds to Get Elected. Tre anni dopo esce il suo nuovo lungometraggio, Polytechnique, questa volta slegato dal genere sentimentale e basato sulla strage del 6 dicembre 1989 all'Ecole Polytechnique di Montreal, dove persero la vita quattordici studentesse per mano del venticinquenne Mar Lépine, che si tolse poi la vita a seguito del folle gesto. Il film segna forse la vera "svolta al teso" del regista, avendo nella sua drammaticità molte venature thriller, amplificate dall'utilizzo delle inquadrature e del bianco e nero da Villeneuve, che proprio grazie a Polytechnique vinse ben nove Premi Genie, tra i più importanti riconoscimenti del cinema canadese, tra cui miglior film e miglior regia. E già il 2010 segna un altro importantissimo anno per Denis, che presenta al mondo il suo magnifico La donna che canta, una splendida e toccante riflessione sulla famiglia e sulla maternità che porta a Villeneuve la sua terza candidatura agli Oscar.

Delicatissimo e commovente nella scrittura quanto stroardinario nella regia, La donna che canta è forse l'inizio della vera escalation del cinema di Villeneuve nel mondo. Da questo momento in poi, infatti, la produzione delle sue opere si sposta sul marcato americano, destando l'attenzione di grandi studios e rinomati interpreti. Il primo progetto del nuovo corso si concretizza con Prisoners, un thriller dall'impostanzione davvero molto classica ma senza mezzi termini perfetto nella costruzione narrativa, nell'impianto drammaturgico e nei rapporti tra i protagonisti, deciso inoltre come non mai a instillare nel pubblico un senso di disturbante inquietudine, dovuto forse all'ambiente asettico della Pennsylvania e all'affascinante fotografia del sempre gigantesco Roger Deakins, che da quel momento stringerà una prolifica collaborazione con Villeneuve. Gli interpreti, poi, da Hugh Jackman a Paul Dano, regalano delle performance incredibili e la storia riserva un finale davvero memorabile, elementi che rendono Prisoners uno dei migliori film del 2013, stesso anno di Enemy, secondo, incredibile film di Villeneuve con protagonista Jake Gyllenhaal e basato sul romanzo di José Saramago.

La consacrazione con Sicario e Arrival

Instancabile e deciso a sperimentare ancora più a fondo nel genere thriller, due anni dopo l'enorme successo di Prisoners il regista franco-canadese torna in sala con Sicario, passando prima per il Festival di Cannes, questa volta in Concorso Ufficiale. Il film, proprio come il precedente, non è però scritto da Villeneuve, che concentra così i suoi sforzi nella regia seguendo la sceneggiatura del bravo Taylor Sheridan. Sicario si dimostra senza troppe sorprese l'ennesima grande opera del regista, che spingendo ancora di più la mano su di una tensione crescente - coadiuvata da una colonna sonora quasi da cinema horror - riesce a raccontare una storia di cartelli della droga, vendetta e affermazione personale in uno stile semplicemente unico e probabilmente inimitabile, costruendo scena dopo scena un thriller dal ritmo in crescendo con svolte misurate, stilisticamente impeccabile. Inutile ricordare il successo del film a soli due anni dall'uscita, con annesse nomination agli Oscar per la fotografia di Deakins e per montaggio e colonna sonora. Aiutato infatti da fedeli e stimati collaboratori, Villeneuve è un rinomato perfezionista, e per la parte tecnica si affida ai migliori, contribuendo ovviamente con le sue oculate e spesso sagge scelte. Crescendo in modo iperbolico, Denis giunge infine alla consacrazione nel 2016, giusto un anno fa, con Arrival, uno sci-fi davvero d'altri tempi e strettamente correlato alla fantascienza Tarkovskyana e Kubrickiana, fatta di esistenzialismo e di un'umanità che vuole spingiersi oltre. Il film, più ponderato e retorico che spettacolare, sul piano visivo è forse il vero, grande capolavoro di Villeneuve, artisticamente candido e anche studiato nella narrazione, sfasata quasi in stile Nolan, con il quale il regista si è inoltre congratulato per il suo Interstellar. Facendo in conclusione un rapidissimo calcolo, Villeneuve ha compiuto in questi giorni 50 anni, nel corso dei quali ha sempre avuto modo di evolvere e allargare i confini della sua portata autoriale, regalando al mondo delle vere perle cinematografiche e costruendosi una grande reputazione nel settore. E Blade Runner 2049 rappresenta a suo avviso la coronazione delle sue ambizioni e solo la fine di metà della sua vita e del suo lavoro, che come ampiamente dimostrato non conosce limiti oltre a quelli auto-imposti prima della prossima espansione.

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