Codice Criminale: padri e figli in lotta sul grande schermo

Codice Criminale porta su grande schermo un'intensa storia fra un padre e un figlio, ecco altri esempi simili nella recente storia cinematografica.

Codice Criminale: padri e figli in lotta sul grande schermo
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"There's no story if there isn't some conflict", afferma Wes Anderson, che si ripete questa sorta di mantra ogni volta si appresta a scrivere un nuovo film. Come dargli torto? Il conflitto è il vero motore di una storia, quello che spinge i personaggi oltre la loro zona di sicurezza e li costringe a un confronto nella maggior parte dei casi catartico, pronto a ridefinirli completamente. Di conflitti il mondo del cinema è pieno, e se ne possono trovare davvero di ogni tipo. Uno in particolare, però, sembra colpire il pubblico più degli altri: si tratta del confronto generazionale, di padri che rinnegano i figli e viceversa, di contrasti di natura comportamentale o ideologica tra genitori e figli. In fondo è il tema al centro anche del film d'esordio di Adam Smith, che in Codice Criminale dipinge la lotta intestina alla famiglia criminale dei Cutler, in cui il giovane Chad (Michael Fassbender) sogna un futuro diverso per la moglie e i figli, lontano dalle imposizioni dittatoriali del padre-padrone Colby (Brendan Gleeson).

Di padri e figli

Inutile dire che si possono trovare esempi simili in numerosissimi film, anche tra i più noti e celebrati di sempre; le problematicità dell'assenza di un padre, ad esempio, sono l'asse portante di parecchi lavori firmati Steven Spielberg (E.T., Hook, Indiana Jones e l'ultima crociata), mentre in Billy Elliott, Stephen Daldry si serve dello stesso archetipo per tracciare una mappa dei pregiudizi della società: la stessa in cui un padre non vuol vedere il proprio figlio praticare la danza, poiché ritenuta troppo femminile.

Dal concetto di famiglia è poi impossibile separare quello implicito della lealtà: torna in mente quindi gran parte del cinema di Martin Scorsese che declina la sua indagine sia nella descrizione della malavita newyorkese (Mean Streets, Quei bravi ragazzi, Gangs of New York) sia sotto un profilo più squisitamente religioso (L'ultima tentazione di Cristo, Silence), dove la lealtà al Padre acquista la sua massima rilevanza spirituale. Come non citare, poi, l'ultimo enfant prodige del cinema canadese, Xavier Dolan, i cui lavori sono una costante dichiarazione d'amore/odio verso quella figura materna così efficacemente descritta attraverso la relazione spesso morbosa in cui la figura del padre è praticamente esclusa dal quadro. Come avrete capito, gli esempi si sprecano, ma per questa selezione abbiamo scelto tre pellicole con un punto in comune fondamentale all'interno del genere fin qui descritto. In questi lavori, che portano la firma di tre dei più grandi registi del panorama cinematografico americano recente, lo scarto è dettato dalla decisione del figlio di non ripetere gli errori della figura di riferimento, quelle pellicole in cui la catarsi - fondamentale - raggiunge vette altissime, in grado di catalizzare l'attenzione drammaturgica completamente, esattamente come Chad decide di fare anche in Codice criminale con la scelta di educare i propri figli e di inserirsi meglio all'interno del tessuto sociale, al contrario del padre isolazionista.

I Tenenbaum

Il terzo film di Wes Anderson porta avanti un discorso che già era presente in embrione nel precedente Rushmore: l'assenza dell'autorità paterna e di come questa assenza possa avere ripercussioni disastrose per la prole. In questo caso, tre potenziali geni - una precoce drammaturga, un talento per l'economia, un campione di tennis - vengono soffocati da due decenni di tradimenti, fallimenti e disastri. All'interno di questa famiglia disfunzionale troviamo Richie, che si allontana volontariamente per dimenticare l'amore verso la sorella ("adottiva") Margot; quest'ultima è vittima di una depressione cronica, che sfoga abitualmente con relazioni occasionali, l'ultima delle quali con Eli Cash, altro elemento alla ricerca di una figura dominante, assente nella sua famiglia. Infine, Chas, che ha da poco perso la moglie in un incidente aereo e da allora è istericamente preoccupato dell'incolumità dei propri figli. Tutti i problemi, o quasi, dei tre elementi messi in campo trovano una loro origine in Royal Tenenbaum, capo famiglia cacciato di casa per la sua continua infedeltà coniugale. La madre, Etheline, tuttavia non può configurarsi come un esempio completamente positivo, dato il suo distacco emotivo spesso eccessivo. «Look, I know I'm going to be the bad guy on this one, but I just want to say the last six days have been the best six days of probably my whole life". Immediately after making this statement, Royal realized that it was true». È evidente come anche dopo la svolta principale della prima parte, già ampiamente anticipata da uno spettatore onnisciente, il senso per il dramma e il tragico rimanga inalterato soprattutto grazie a un'ironia sottile, che fa capolino quando meno ce la si aspetterebbe. A dispetto della loro natura ironica e giocosa, infatti, tutti i film del regista di Austin partono dal più drammatico degli impianti narrativi e lentamente scardinano il tragico, al quale si sostituisce naturalmente una speranza verso le future generazioni. La stessa struttura sarà rintracciabile anche nei successivi lavori di Anderson, specialmente ne Il treno per il Darjeeling: qui l'assenza/presenza della figura paterna permea tutto il viaggio dei tre protagonisti come uno spettro che gravita sulle loro teste.


Il petroliere

Da un Anderson a un altro, che risponde al nome di Paul Thomas. Considerato dalla stragrande maggioranza della critica internazionale come il suo capolavoro, Il petroliere è stato studiato e sviscerato sotto diversi aspetti. All'inizio del Novecento, Daniel Plainview scopre un giacimento di petrolio in una delle sue miniere e in men che non si dica metterà in piedi una sua compagnia di estrazione attraverso cui fare affari per tutta la California. In tutti i suoi viaggi è accompagnato da H.W., figlio di uno dei suoi lavoratori rimasto ucciso in un incidente e che Plainveiw crescerà come suo. Il suo scopo iniziale è quello di servirsene per ricostruire un ambiente famigliare ideale e credibile al fine di intrecciare relazioni positive con i suoi clienti, ma il rapporto diverrà gradualmente più profondo. È la cronaca di un uomo crudele, che serve costantemente un unico padrone, o maestro, (il dio del capitalismo) noncurante della sofferenza generata dalle sue azioni. A questa inarrestabile forza della natura si contrappone la religione, che nulla può poiché i suoi ministri sono pur sempre uomini, quindi vittime del desiderio, della corruzione, della menzogna. Anderson scava fino alle profondità dell'animo umano, disvelando una perversione e una cattiveria dai connotati biblici, quasi a suggerire la vera natura dell'essere umano. Il suo Plainview è uno degli esempi più contorti e demoniaci di figura paterna mai apparsa sullo schermo, eppure i siparietti con il figlioletto H.W. sono tra i momenti più distensivi della narrazione, a dimostrazione della fede del suo regista nei legami affettivi, la sola cosa che ci eleva dalla materialità dell'esistenza, che ne configura un senso accettabile. "It's the truth. You're not my son. Never have been. You're an... you're an orphan. D'you ever hear that word? [...] Look at me. You're lower than a bastard. You have none of me in you. You're just a bastard from a basket". Anche al termine di questo dialogo risolutore, in senso negativo, non è la rabbia a emergere come sentimento predominante della scena. Lo è il rimpianto: quello di Plainview di non aver costruito nel tempo un rapporto affettivo saldo con il figlio, che ora siede davanti a lui e gli comunica la sua partenza per divenire un suo concorrente. Se tra i due vi era mai stato un sentimento reciproco, questo è stato spazzato via per sempre. «I'm finished», come sentenzierà il protagonista al termine della pellicola. Un monumentale trattato sui rapporti umani, sorretto dalla prova maiuscola di Daniel Day-Lewis.


I padroni della notte

Il cinema di James Gray è sempre andato di pari passo con l'attenta disamina del significato delle proprie radici. Fin da Little Odessa, i personaggi che popolano le sue storie sono sempre stati dilaniati, quasi scissi tra due mondi: quello dell'interesse personale e degli affetti famigliari, con tutto il carico di predestinazione che si portano appresso. I padroni della notte non fa eccezione, e ci presenta fin da subito una famiglia composta da due fratelli (mirabilmente interpretati da Joaquin Phoenix e Mark Wahlberg) che nella vita hanno scelto strade diametralmente opposte. Il primo ha rinnegato persino il proprio nome per avviare la sua attività nei club notturni della città di New York (mai così grigia e minacciosa, metafora perfetta dell'interiorità dei suoi personaggi); il secondo ha proseguito la strada paterna arruolandosi nel corpo di polizia. L'attentato subito proprio da quest'ultimo sarà l'occasione necessaria a un ricongiungimento, al quale comunque non sarà facile arrivare, a meno di non passare per alcuni sacrifici obbligati e incontrollabili alla volontà dei protagonisti (la morte e il caso viaggiano sempre a braccetto nel cinema di Gray). È vero, in questo caso il conflitto ha un doppio binario (padre-figlio/fratello-fratello), ma è l'asse portante su cui è strutturato. L'ultimo grande noir americano che si appropria delle regole del cinema classico per declinarle in funzione di un post-modernismo mai esasperato o fine a se stesso, e che conferma Gray come uno dei più grandi cineasti del suo tempo.

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