Recensione Upstream Color

Dopo Primer il regista Shane Carruth firma un'altra opera di sci-fi astratta ed emozionale

Recensione Upstream Color
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Kris, una giovane e bella gallerista d'arte, viene drogata da uno sconosciuto che le somministra una sostanza derivata da un bruco, che rende la donna del tutto schiava agli ordini dell'assalitore, che riesce così a farsi consegnare da Kris un'ingente somma di denaro. Tornata apparentemente in sé la ragazza scova una larva che si muove all'interno del suo corpo, e decide perciò di farsi operare da un allevatore che utilizza per l'operazione anche il corpo di un maiale. Poco dopo l'intervento Kris incontra Jeff, un broker fallito, col quale instaura una relazione. Ma entrambi si accorgono di trovarsi in una situazione psichica strana, diversa da qualsiasi cosa abbiano mai vissuto. Solo insieme, e dopo mille tentativi, potranno cercare di scoprire cosa gli è realmente accaduto...Shane Carruth è tornato: il geniale regista underground che nel 2004 aveva stupito con la sua opera prima, Primer, realizzata con solo 4.000 dollari e apprezzata ai diversi festival del fantastico in giro per il globo, torna su grande schermo a quasi dieci anni di distanza con Upstream Color, pellicola che ha ricevuto reazioni entusiastiche da parte della critica americana (80/100 su metacritic e addirittura 88% su rottentomatoes) e che dimostra ancora una volta l'abilità dell'autore di realizzare opere di rilievo con budget limitati. Anche in questo caso difatti, si vocifera che gli siano bastati soltanto 7.000 dollari.

Salto nel vuoto

La cifra stilistica di Carruth continua sul percorso tracciato col suo film precedente: una sceneggiatura, e rispettiva narrazione, astratta che incanala in un viaggio di sensazioni visive ed emotive non curandosi troppo di dare spiegazioni, o meglio lasciando all'interpretazione dello spettatore le risposte a quanto si sta osservando. Una trama complessa e stratificata, che non offre certezze e anzi apre la pista a dubbi irrisolti, con un finale che se possibile complica ancor di più le carte in tavola. Premettendo con questa introduzione che Upstream Color non è quindi proprio un titolo per tutti, soprattutto non per chi cerca risposte facili e trame che vanno da un punto A ad uno B, l'opera è sicuramente un affascinante enigma per il pubblico più "operoso", raccontato con una regia nebulosa e continuamente sospesa, tra due mondi, due realtà, due piani temporali: lo stallo tra i vari "mondi", se effettivamente di stallo si tratta, non è chiaro in questa destrutturazione di avvenimenti grandi e piccoli, sogni e percezioni distorte, allucinazioni fisiche e sonore. In tutto questo arzigogolato puzzle è ben intessa una storia d'amore, dal nascere sino alla crisi, di due figure insoddisfatte delle rispettive esistenze forse proprio a causa di quel mistero insondabile nel quale sono calate, e solo il percorso verso il tunnel della conoscenza riuscirà a riconciliarli con sé stessi e col mondo. Una sci-fi matura e umanistica, naif ma mai snob, pseudo-autoriale ma con dei punti di forza in grado di catturare anche gli amanti dei film di genere, grazie all'atmosfera visionaria e surreale che crea una suggestiva immersione delle criptiche vicende vissute dalla coppia di protagonisti, il maschile interpretato nuovamente dallo stesso regista, che si è occupato anche della colonna sonora, della sceneggiatura, del montaggio, della fotografia. Un autore a 360° in grado di dividere critica e pubblico, ma sicuramente ad oggi unico nel panorama indipendente statunitense.

Upstream Color Un'opera criptica in cui niente è volutamente chiaro, nella quale si viaggia per enigmi che neanche il finale riesce infine a svelare. Ma è un percorso affascinante, ricco di possibili interpretazioni e magneticamente emozionale, una sci-fi dei sensi che farà la gioia degli spettatori più cerebrali mentre rischia di mettere a dura prova la pazienza del grande pubblico.

7

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