Recensione The Hunter - Il cacciatore

Quando la caccia è all'uomo...

Recensione The Hunter - Il cacciatore
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Il clima di oppressione che si respira in un Paese come l'Iran, trapela inesorabilmente da ogni film di regista legato a questa terra. Da I gatti persiani di Ghobadi, passando per le ragazze Offside di Panahi, fino al ‘cacciatore' protagonista di questo film di Rafi Pitts, tutti i protagonisti condividono e rappresentano la cappa di oppressione ma anche lo slancio di ribellione generati da un sistema politico e sociale fortemente condizionante. Come i loro protagonisti, tutti i registi dei succitati film, condividono qualcosa, ovvero l'impegno nel rappresentare, ognuno a suo modo, il velo di oppressione che da troppo tempo avvolge l'Iran. Ne Il cacciatore di Rafi Pitts il realismo stilistico si fonde al surrealismo kafkiano della trama, dando vita a un'opera fortemente simbolica e dalle molteplici chiavi di lettura.

Nell’antro della foresta

Alì (interpretato dallo stesso regista Rafi Pitts che ha dovuto all'ultimo momento sostituire l'inaffidabile attore protagonista), da poco uscito di prigione per un crimine non ben specificato, è costretto a lavorare come guardiano notturno; un lavoro di cui soffre particolarmente l'impossibilità di trascorrere tempo a sufficienza con la giovane moglie e la figlioletta. L'unico sfogo nella sua difficile vita sembra essere la passione per la caccia, che lo porta spesso a vagare per i sentieri di una vicina foresta dislocata al nord. Un giorno, di ritorno dal lavoro, Alì trova la casa vuota, animata dalla sola presenza del gattino tanto adorato dalla figlia. Scoprirà che la moglie è rimasta accidentalmente uccisa dal fuoco incrociato scoppiato durante una manifestazione di protesta e che la figlia sembra esser sparita. La cruda e paradossale cronologia di eventi tramite la quale apprenderà della vicenda al commissariato, identificherà la moglie all'obitorio e, non molto tempo dopo, anche la figlia, porterà l'uomo a perdere definitivamente il lume della ragione e a ritrovarsi su un ponte autostradale, con il fucile imbracciato, per una sorta di ‘catartico' tiro al bersaglio umano. Ucciderà (casualmente o intenzionalmente) due poliziotti, e da quel momento inizierà la sua fuga verso la foresta della 'sua' caccia. Finito fuori strada e acciuffato da una volante con due poliziotti, si ritroverà a vagare con i due agenti, proprio tra gli alberi di quella stessa foresta che lo aveva visto tempo addietro in qualità di cacciatore, e che lo osserva ora nella nuova veste di preda. Intrappolati nell'antro della foresta, i tre uomini daranno vita a una sorta di gioco delle parti che si chiuderà con un inaspettato e beffardo finale aperto.

Esistenze braccate

Sono la semplicità (una modesta casa) e l'amarezza (un destino crudelmente segnato) della vita di un uomo annichilito da una labirintica società (ineludibile come la foresta) in cui l'anonimato paesaggistico (una Teheran resa irriconoscibile dal grigio del cemento) si fonde a quello umano (è alienante scoprire come la scomparsa delle due donne non desti alcun segno di preoccupazione, neanche tra le persone quotidianamente frequentate). Le fitte nebbie, le incessanti piogge e l'intrico di una foresta che è a un tempo salvezza e dannazione diventano dunque metafore di un'esistenza asfittica e profondamente kafkiana, in cui non c'è alcun senso a giustificare un lavoro (i due poliziotti vivono il loro ruolo con estrema conflittualità), la prigionia (di Alì non si saprà mai perché è stato incarcerato), la libertà (fasulla di una società dittatoriale) e la morte (che affida le sue scelte al caso e/o alla burla). Rafi Pitts delinea queste contraddizioni con grande intensità visiva, nitida nella prima parte e profondamente annebbiata nella seconda, tracciando le fila di una storia che non ha molto senso se si prescinde dalla conoscenza della (per certi versi) drammatica realtà iraniana.

The Hunter - Il cacciatore Arriva dall’Iran un nuovo film sui pesanti condizionamenti di una società che bracca i suoi cittadini come fossero prede da cacciare. Suddiviso in una prima, più dinamica, parte urbana a Teheran e in una seconda, più statica, parte 'rurale' nella foresta, il film di Rafi Pitts è immerso nello straniamento kafkiano dell’uomo che si ritrovi privato della sua esistenza senza una valida ragione. Il dolore scaturito da una circostanza tanto folle quanto apparentemente ordinaria è qui stemperato dalla malia di una natura che sembra infine l’unica capace di ripristinare degli (seppur apparenti) equilibri. Una storia di non facile lettura che va contestualizzata perché acquisti la forza di quella denuncia che è la cifra comune a tutti i film iraniani.

6.5

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