Black Dahlia, la recensione del film di Brian De Palma

Due uomini, una donna, un'ossessione... la recensione di Black Dahlia, ultima fatica noir di Brian De Palma.

Black Dahlia, la recensione del film di Brian De Palma
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Un nome e una speranza. Forse.

Qualcuno ha detto De Palma? Perché se, al Festival del Cinema di Venezia alla 63° edizione, si presenta un nome di questo calibro, immediata aumenta la salivazione del pubblico, e non solo di coloro che, stoici, si ergono nella certezza, o forse speranza, che i nostri tempi siano ancora nonostante tutto in grado di regalarci uno Scarface. Qualche volta però, nonostante le premesse ci siano tutte, un’aspettativa troppo alta significa amara delusione. Ed è altresì vero che, per alcuni, è impossibile non essere schiacciati dal peso di tali speranze, che tanto pretendono e poco perdonano. Quanto, nell’opera del regista, contano l’ispirazione e la schiettezza? E quanto invece conta la ragionata meticolosità, il razionale artificio? E in che misura sarà in grado di padroneggiarle un De Palma sicuramente non nella sua forma migliore? Se “Snake Eyes” (1998) vantava ancora, a tratti, la padronanza tecnica unita al genio, non è possibile passare sopra ad uno scandaloso “Mission to Mars” (2000), e ad un insipido quanto insignificante “Femme Fatale” (2002).
Con The Black Dahlia è un’altra prova del nove, come se ne concedono ad oltranza, per il regista statunitense, che si cimenta stavolta con la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di James Ellroy. Il racconto è liberamente ispirato al più famoso caso di omicidio negli Stati Uniti rimasto insoluto, la cui vittima fu Elizabeth Ann Short, un’aspirante attrice di Hollywood. Il delitto, per la connotazione particolarmente violenta, perché avvenuto vicino all’abitazione del giovane Ellroy, e per via del fatto che rimane irrisolto, proprio come l’omicidio della madre dell’autore, segna profondamente la sua vita, e l’ossessione per tale similitudine viene espressa nel romanzo, in cui la realtà dei fatti si mescola con paure ed angosce personali.
Ora, una realtà con cui un regista deve fare i conti nell’accingersi a girare un film basato su un famoso romanzo, è che gli amanti dello scritto difficilmente ed in rari casi ameranno il risultato delle sue fatiche: De Palma sceglie quindi di percorrere una sua strada, riadattando la storia alle sue esigenze e, nel contempo, liberandosi in parte del pesante fardello delle aspettative dei fan del libro. Un’oppressione del genere, probabilmente, sarebbe risultata eccessiva per chi, come lui, sembra in difficoltà a lavorare all’ombra del proprio nome.

La menzogna di Hollywood

E’ il 1947, Los Angeles. Josh Hartnett ed Aaron Eckhart sono Dwight Bleichert e Leland Blanchard. Abili, stagionati poliziotti ed ex pugili, ai tempi si erano guadagnati i soprannomi di Mr Ice e Mr Fire. Insieme sul ring, quando la polizia organizza un incontro per sponsorizzarsi, insieme nel lavoro e nella vita, dove condividono l’amicizia e l’amore per Kay (Scarlett Johansson), la bella e sensuale compagna di Lee. Insieme sempre e comunque, quindi, ma allo stesso tempo due caratteri opposti: Bucky è compassato e razionale, quanto Lee è passionale e irruento.
Protagonista e narratore, in puro stile noir anni ’50, Bucky assume il ruolo di guida nell’immersione in questa artificiosa atmosfera dal gusto retrò, e ben presto si può osservare come il regista si sia distaccato da quello che era il messaggio del romanzo di Ellroy. Se infatti lo scrittore andava a delineare l’ossessione, spada di Damocle sul capo dei suoi personaggi, la visione di De Palma si sofferma invece sull’apparenza come catalizzatore degli eventi, sulla vanità e sulla artificiosità come mezzi validi per riuscire nella vita e su cui costruire le nostre valide menzogne. Hollywood tutta è basata su apparenza, è finta fino alle ossa: evidenza che si palesa con lo scorrere della pellicola, in modo quasi indignato per il ritardo con cui arriviamo a comprendere. In fin dei conti i segnali erano lì, sotto il naso, fin dall’inizio: quell’incontro truccato, quelle inchieste sui crimini indette in base alla maggiore visibilità... Quell’amicizia che mente, profumando di triangolo amoroso. Ciò che pare solido e certo si rivela non esserlo, tra pallottole dalla dubbia traiettoria, scatole di fiammiferi, un indirizzo annotato, e la Dalia Nera, la giovane attricetta che passava le notti in strada, nell’attesa dell’occasione giusta. Quando il cadavere di Elizabeth Ann Short viene trovato, orrendamente squarciato e con un sorriso indelebile, disegnato col coltello, in viso, appare chiaro che le ossessioni del passato inizieranno a tormentare i protagonisti. Un lungo preambolo per arrivare al cuore della vicenda, e anche questo non è quello che ci si aspetta. Sono veramente la morte della ragazza e le sue modalità ad ossessionare Lee? Bucky e l’imperturbabile Kay, tra i quali nasce un'evidente attrazione, sono realmente sfuggiti ad essa? O piuttosto l’emergere di una menzogna apre la strada a molte altre?

Noir artificiale, noia genuina

L’immagine che il regista ci offre è pomposa. L’artificialità trasuda dalle inquadrature, dai colori, dagli ambienti, e richiama la nostra attenzione allo stesso modo in cui ci tiene lontani, come una donna che ammalia, ammiccante, per rifiutarci in un perverso gioco di piacere. Il pacchetto in cui The Black Dahlia è presentato è impeccabile, quasi regale nelle panoramiche, nei carrelli circolari e nei (rari) piani sequenza, che inscenano in modo magniloquente, accompagnati da una colonna sonora adeguata e dall’immancabile voce narratrice di Bucky, l’incedere degli eventi. O forse dovremmo dire l’incespicare. I motivi di De Palma sono originali, arguti, e innegabilmente gli appartengono. Nessuno, peraltro, potrebbe trovare difetti nella realizzazione scenico-tecnica del film. Ciò che ci viene inesorabilmente negato è, purtroppo, la sapienza di un intreccio coinvolgente, che cha agisca da collante tra tematiche e fatti, e che conceda una maggiore comprensione dei protagonisti e dei loro motivi. E in questo modo ci è impedito di affezionarci a dei personaggi che lasciano solo la possibilità di intuire. Non che il tentativo di motivarli e approfondirli non sia stato fatto. I momenti di vera riflessione, tuttavia, sfuggono alla mente dello spettatore, smarritosi tempo prima in un groviglio di fatti, azioni, nomi, che tutto lasciano tranne il tempo di essere metabolizzati e compresi. L’azione, dal canto suo, non manca, e l’emozione non può non risvegliarsi al citare dell’autore di scene epocali come la morte di Tony Montana: ma è solo un attimo, un baluginare che subito si spegne, e di nuovo l’attenzione latita e noia e frustrazione prendono il sopravvento. E’ così possibile, non più distratti dalla trama, andare ad apprezzare con la rabbia della delusione tutta una serie di imperfezioni o di carenze dell’opera, come la scialba interpretazione di quasi tutti i protagonisti: a partire da un Josh Hartnett che non riesce proprio a staccarsi dall’espressione da sagace furbetto, da un Aaron Eckhart la cui soluzione al problema della recitazione pare essere il sorrisetto politico-enigmatico, fino ad arrivare ad un’inadatta, poco convincente e monocromatica Hilary Swank nei panni della solita, piatta femme fatale Madeleine Linscott. Felice ancora una volta la prova della freschissima Scarlett Johansson, capace di adeguarsi alle esigenze recitative. E’ possibile apprezzare, inoltre, la delicata apparizione di Mia Kirshner, nei filmati in bianco e nero visionati dai due agenti, nei panni dell’ancora viva Elizabeth Short: l’attrice ci regala forse le uniche vere emozioni del film, trasudando innocenza contaminata, ed una dolce, forte debolezza.
La vicenda, ricca sicuramente di citazioni e colti riferimenti, e fino a quel momento impeccabile dal punto di vista tecnico, decade anche dal punto di vista formale nel finale, frettoloso e raffazzonato, che poco ha di chiaro e credibile. Forte è la sensazione, uscendo dalla sala, di una mancata concretizzazione, di una brusca frenata narrativa che non ci regala catarsi. Ma, come traspare dalle ultime parole del protagonista nel finale, rassegnarsi è l’unica alternativa.

The Black Dahlia Ci si aspetterebbe certamente di più da un mostro sacro del cinema (seppur negli utlimi tempi un po’ zoppicante) come Brian De Palma. Un film blasonato, decantato, vestito a festa, e grandi messaggi da trasmettere: e ancora la perizia tecnica, la bellezza stilistica, le capaci inquadrature, così come la scenografa efficace e una fotografia splendida non nascondono, purtroppo, la pochezza narrativa e l’incapacità del regista di giungere a una conclusione. Anche questa volta, ahinoi, solo chiacchiere e distintivo.

5.5

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