Recensione Stray Dogs

Tsai Ming-liang, Leone d'Oro nel 1994, torna al Lido con un film sull'alienazione, la miseria e la sofferenza

Recensione Stray Dogs
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Consacrato sulla ribalta internazionale proprio alla Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 1994, agli inizi della sua carriera, aveva conquistato il Leone d’Oro grazie alla sua opera seconda, Vive l’amour, il regista taiwanese Tsai Ming-liang torna in concorso al Festival cinematografico più antico del mondo con il film che, secondo quanto dichiarato dallo stesso autore, dovrebbe costituire anche il suo addio al set (ad appena 55 anni di età): Jiaoyou, titolo internazionale Stray dogs, ovvero “cani randagi”. E i cani randagi in questione sono un uomo, Hsiao-kang, i suoi due figli e una donna misteriosa. Individui senza identità che vagano come spettri fra le strade grigie e piovose di Taipei, la capitale di Taiwan: una gigantesca metropoli da oltre due milioni e mezzo di abitanti, sede del terzo grattacielo più alto del mondo (il Taipei 101), nonché teatro di un senso di alienazione che da sempre pervade i personaggi del cinema di Tsai Ming-liang.

L’intero film, della considerevole durata di 138 minuti, si sviluppa in effetti nel segno di una solitudine e di uno straniamento resi ancora più evidenti dalle dimensioni vaste e “disumane” in cui sono calati quotidianamente i personaggi. Che si tratti delle strade di Taipei, su cui si abbatte una pioggia incessante, del supermercato in cui i due bambini vagano alla ricerca di qualche assaggio gratuito per sfamarsi, oppure dei boschi ai confini della periferia di Taipei, in cui la famiglia torna a rifugiarsi al termine della giornata, in un vecchio edificio spoglio e abbandonato che utilizzano come “casa” - e all’interno del quale è collocata la prima, lunghissima inquadratura della pellicola. La miseria dei personaggi, la loro tacita sofferenza, è veicolata da Tsai Ming-liang attraverso una serie di sequenze in camera fissa, caratterizzate quasi sempre dall’assenza di parole - a dominare sono unicamente i silenzi o i rumori della città - e da un’imperturbabile staticità.

Ma proprio tali scelte di regia, ascrivibili alla cifra stilistica prediletta da Tsai Ming-liang, finiscono per contribuire alla difficile fruibilità del film stesso, che in troppe occasioni dissipa il pathos e la partecipazione del pubblico in un andamento narrativo di esasperante lentezza: sequenze pressoché immobili che si prolungano per minuti e minuti (il protagonista Hsiao-kang, fermo in mezzo al traffico sotto il diluvio, impegnato nel suo lavoro di “uomo-sandwich”), e che solo in alcuni casi riescono a suscitare una certa emozione - come nella scena struggente in cui il padre di famiglia si avventa contro un cavolfiore, per poi divorarlo con le lacrime agli occhi. E la sequenza finale, un doppio primo piano dei due interpreti principali - Lee Kang-sheng e Chen Shiang-chyi - che va avanti per tanto, troppo tempo, rappresenta l’ennesima sfida alla capacità di resistenza di uno spettatore che rischia di uscire frastornato dalla visione di un film in cui la poesia sfiora pericolosamente il confine con la noia.

Stray Dogs Il regista taiwanese Tsai Ming-liang, vincitore del Leone d’Oro nel 1994 con Vive l’amour, ritorna al Festival del Cinema di Venezia con un film sull’alienazione, la miseria e la sofferenza di una famiglia di “cani randagi” sullo scenario della metropoli di Taipei, optando però per una staticità narrativa che dissipa il coinvolgimento dello spettatore.

6.5

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