Shelter, recensione dell'horror con Julianne Moore

La nostra recensione di Shelter, nuovo thriller horror interpretato da Julianne Moore e Jonathan Rhys Meyers.

Shelter, recensione dell'horror con Julianne Moore
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I seguaci irriducibili del cinema horror non potranno fare a meno di ricordare che la californiana classe 1960 Julianne Moore, arrivata a farsi conoscere dal grande pubblico tramite i drammatici Safe (1995) di Todd Haynes e Boogie nights-L'altra Hollywood (1997) di Paul Thomas Anderson, il quale le valse la sua prima candidatura al premio Oscar, vanta nella sua quasi trentennale filmografia la partecipazione all'horror a episodi I delitti del gatto nero (1991) di John Harrison, comprendente tra gli sceneggiatori perfino il re dei morti viventi George A. Romero e il mitico Stephen King.
Quindi, considerando che abbiamo avuto modo di vederla anche nell'atipico Omicidi e incantesimi (1991) di Martin Campbell e in Hannibal (2001) di Ridley Scott, non stupisce trovarla nuovamente coinvolta in una vicenda di celluloide rientrante nel genere che ha regalato la popolarità ad individui quali Freddy Krueger e Leatherface.

Il rifugio dei dannati

Sotto la direzione degli svedesi Måns Mårlind e Björn Stein, già autori del thriller a tinte fantastiche Storm (2005) e qui alla loro prima prova in territorio americano, infatti, la Moore veste in Shelter (letteralmente "rifugio") i panni della psichiatra forense Cara Harding, la quale scopre che un suo paziente interpretato dal Jonathan Rhys Meyers di Match point (2005) e From Paris with love (2010) è affetto da problemi di personalità multipla.
Ancora più inquietante, però, è la scoperta del fatto che tutte le personalità dell'uomo sembrano essere state vittime di brutali assassinii, mentre, prima che il suo tempo cominci a finire e sua figlia Sammy alias Brooklynn Poulx si trovi in pericolo, Cara tenta di capire se tutto ciò è legato ad un fenomeno soprannaturale o a semplici allucinazioni.

Le personalità multiple di Michael Cooney

Un soggetto che, alla sola lettura, potrebbe lasciare intuire una forte originalità di fondo, soprattutto se teniamo in considerazione il fatto che a firmare lo script è l'inglese Michael Cooney, regista dei divertenti splatter demenziali Jack Frost (1997) e Jack Frost 2: Revenge of the mutant killer snowman (2000), con protagonista un pupazzo di neve assassino (!!!), nonché sceneggiatore dello splendido Identità (2003) di James Mangold.
Ma è proprio tutta la stima fino ad oggi avuta nei confronti di una personalità cinematografica del suo calibro - che, oltretutto, ripensando anche al citato film di Mangold, lascia intuire una certa ossessione per la tematica delle personalità multiple - a portarci a storcere abbondantemente il naso durante la visione dei circa 108 minuti sfornati da Mårlind e Stein.
D'altra parte, al di là di occasionali spasmi di cui finisce preda Jonathan Rhys Meyers, la prima metà del lungometraggio si limita soltanto a portarci a conoscenza dei due protagonisti, immersi in una esasperante lentezza narrativa che, nonostante l'argomento volto a generare curiosità nei confronti di ciò che dovrà accadere, non riesce mai a trasmettere tensione ed a coinvolgere lo spettatore.
E le cose non vanno meglio neanche dal momento in cui, tra ritrovamenti di morti e situazioni che dovrebbero provocare spavento, cominciano ad entrare in scena secondari ma fondamentali personaggi, grazie ai quali vengono progressivamente fornite le spiegazioni utili alla misteriosa soluzione dell'assurdo caso.
Quindi, sebbene il lato strettamente horror contribuisca a risollevare un minimo le sorti dell'operazione, gli sbadigli continuano comunque a non mancare e decisamente sprecati si rivelano i due attori protagonisti, qui al servizio di un prodotto che sembrerebbe risentire in maniera eccessiva del curriculum prevalentemente televisivo dei suoi autori.
Un prodotto caratterizzato da una notevole assenza di originalità e da fattezze che non lo rendono affatto distante da quelle dei tanti straight to video a basso costo che affollano i polverosi scaffali delle videoteche.

Shelter Su sceneggiatura del Michael Cooney che scrisse il bellissimo Identità (2003) di James Mangold, in assoluto uno dei migliori thriller sfornati dalla celluloide d’inizio XXI secolo, ecco un’altra vicenda a tinte soprannaturali destinata ad affrontare la tematica delle personalità multiple. A differenza del film di Mangold, però, gli svedesi Måns Mårlind e Björn Stein, già autori di Storm (2005), non sembrano in alcun modo riuscire a generare tensione ed a catturare l’attenzione dello spettatore. Infatti, se nel corso della noiosa prima parte abbiamo soltanto chiacchiere e colloqui tra i due protagonisti, la situazione non migliora neppure una volta giunti alla seconda, destinata allo srotolamento della matassa tirando in ballo il lato strettamente horror dell’operazione. Colpa del passato prevalentemente televisivo dei due registi o, in maniera semplice, del fatto che gli svedesi hanno un senso dell’entertainment del tutto diverso da quello a cui ci hanno abituati gli americani?

5

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