Recensione Se chiudo gli occhi non sono più qui

Il disagio adolescenziale che si affianca e si somma ad altre scottanti tematiche d'attualità in una parabola narrativa che trae

Recensione Se chiudo gli occhi non sono più qui
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Il giovane Kiko (interpretato dal talentuoso esordiente Mark Manaloto) ha sedici anni, è immigrato di seconda generazione e ha perso precocemente il padre in un incidente stradale su cui non si è riuscito mai a fare chiarezza. Vive con la madre Marilou (originaria delle Filippine) e il nuovo compagno di lei (Ennio - interpretato da Giuseppe Fiorello), un caporale che gestisce i lavori di edilizia in un cantiere a totale manodopera di clandestini (tutti ospitati nello stesso bar-stazione dove vivono anche Kiko e sua madre). Costretto a lavorare tutti i giorni al cantiere, per Kiko seguire le attività scolastiche è ogni giorno un'impresa più ardua, motivo per cui il ragazzo (pur estremamente intelligente e dal grande potenziale) rischia di essere bocciato per la seconda volta e indotto (di conseguenza) ad abbandonare gli studi. Determinante sarà invece per lui l'incontro - apparentemente casuale - con l'anziano Ettore (Giorgio Colangeli), ex professore che si presenterà come un amico del padre e che si mostrerà sin da subito intenzionato ad aiutare il giovane Kiko. Dapprima scettico, il ragazzo si lascerà poi catturare dall'amore per i libri e per lo studio trasmessogli da quella figura entrata per caso nella sua vita eppure particolarmente determinata a ricoprire quel ruolo di guida. Sarà poi la scoperta di un ingombrante segreto nella vita di Ettore a mettere a repentaglio il rapporto tra i due, rovesciando nuovamente a terra la vita precaria di Kiko e ponendo il ragazzo (per l'ennesima volta) di fronte a un pressante bivio della sua giovane ma già estremamente ‘adulta' vita.

I dolori del giovane Kiko

Per il suo quarto film da regista, il sondriese Vittorio Moroni (Tu devi essere il lupo, Le ferie di Licu, Eva e Adamo) porta al cinema Se chiudo gli occhi non sono più qui, toccante storia di formazione che si muove all'interno di un quadrilatero di tematiche assai pressanti e attuali della società contemporanea. Il problema dell'abbandono precoce degli studi (si parla del 17,6% degli alunni italiani secondo i dati del 2013), la percezione di non completa appartenenza al mondo sociale da parte degli immigrati di seconda generazione, l'enorme sottobosco di stranieri che lavorano ai margini della società senza farne realmente parte, e infine quello stato adolescenziale già di per sé assai complesso capace di trasformarsi in un enorme buco nero se assenti (in parte o del tutto) quei punti di riferimento adulti dai quali acquisire gli strumenti per crescere e sui quali fare affidamento. Tante tematiche che si incontrano/scontrano dunque attorno all'esistenza del protagonista, ragazzo abbastanza intelligente e sensibile da contemplare come unica possibilità di sopravvivenza una via di fuga (perlomeno mentale) da quel mondo cinico e ostile che sembra remargli ogni giorno contro con maggiore forza. Parte infatti da questa 'idea' la ri-costruzione di un mondo proprio, un vecchio autobus dismesso trasformato in rifugio remoto, dove sognare, chiudere gli occhi ed evadere, contemplare la figura di quel padre perso precocemente ma che ancora si ostina a essere (in qualche modo) una guida formale e spirituale. Moroni costruisce una bella parabola, ricca di spunti riflessivi e di momenti intimi in cui vengono a galla tutti i disagi di un'adolescenza dolorante, pressata dal fardello di uno status sociale di partenza fin troppo precario. Nel film di Moroni non tutto (narrativamente parlando) riesce ad avere lo stesso peso e la stessa valenza perché il percorso circolare seguito dal film apre e chiude su Kiko, lasciando invece che le altre esistenze gli gravitino attorno restando a fare da semplice corollario e senza assumere grande forza drammaturgica. Ne consegue una sorta di semplificazione concettuale che va a vantaggio del nucleo narrativo centrale precludendo (in qualche frangente) la totale uniformità filmica. Ciò nonostante, l'ottima prova dell'esordiente Manaloto insieme all'ispirazione che (più o meno evidentemente o in maniera subliminale) pervade il film nella sua interezza, fanno di Se chiudo gli occhi non sono più qui un'opera intensa e capace di toccare diverse corde esistenziali e (a dispetto del titolo) aprire gli occhi su alcune delle realtà sociali del contemporaneo più bisognose di attenzione e - soprattutto - intervento.

Se chiudo gli occhi non sono più qui Il regista sondriese Vittorio Moroni porta al cinema il ritratto doloroso e delicato di un adolescente senza ‘santi in paradiso’, costretta a diventare precocemente adulta da uno stato sociale e famigliare assai precario. Presentato lo scorso anno al Festival di Roma nella sezione Alice nella Città, Se chiudo gli occhi non sono più qui mette in luce la parabola toccante di una ricerca disperata di punti di riferimento e di un proprio posto nel mondo - anche quando quel posto sembra così remoto da esistere solo grazie alla capacità (propria) di evasione e immaginazione. Una storia attuale e verosimile che nonostante la semplificazione di alcuni raccordi narrativi, riesce a essere convincente soprattutto nell’analisi dello scontro tra la forza travolgente dello stato adolescenziale e i limiti imposti dalla realtà sociale contingente entro cui quell'adolescenza insiste. Uno scontro - infine - ben incarnato dalla profondità e dall’intensità di sguardo dell’esordiente Manaoloto nei panni del protagonista Kiko, stretto nella morsa di una vita sfuggente e di un triangolo di padri (ipotetici punti di riferimento) estremamente diversi eppure tutti ugualmente irreali.

6.5

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