Recensione Sangue

Pippo Delbono analizza la sua personale, complessa idea di vita attraverso la morte

Recensione Sangue
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Uno degli artisti più originali della scena teatrale italiana contemporanea, Pippo Delbono prosegue lungo la sua strada artistica di commistione tra documentario e cinema verité portando sul grande schermo l'ennesimo capitolo di una vita assai controversa ma sempre di grande ispirazione. Dopo Grido, La Paura, Amore Carne è infatti la volta di Sangue, pellicola vincitrice del premio "Don Chisciotte" alla 66° edizione del Festival del Film di Locarno e della Menzione d'Onore al Doclisboa Festival. Una pellicola che (d'altro canto) non ha potuto fare a meno di sollevare le numerose polemiche e le accanite contestazioni di quanti ritengono il cinema di Delbono (e in particolare questo suo ultimo lavoro) quasi del tutto privo di un senso del pudore e di un'etica della narrazione. All'origine delle critiche vi è infatti la struttura portante del film, che lega insieme e attraverso un unico filo rosso il tema della morte. La morte accidentale (neanche troppo) e sicuramente ingiusta di oltre 300 persone e di un'intera città (L'Aquila) che a distanza di cinque anni dalla tragedia non è ancora stata sottratta al suo aggettivo di fantasma; la morte (politica) di un uomo ucciso - Roberto Peci - con la sola colpa di essere fratello di un brigatista pentito (Patrizio), e oggi raccontata come frutto di un mondo parallelo dagli occhi fuggenti e imbarazzati di uno dei colpevoli di quella morte gratuita (ovvero l'ex terrorista Giovanni Senzani, da diversi anni amico di Delbono); e infine la morte (inesorabile) di due donne (Anna, la compagna di Senzani e Margherita, la madre di Pippo Delbono) ugualmente prese da un male incurabile e avviate - insieme- verso la fine della vita che tutti conosciamo assieme a un inesorabile senso di perdita, di vuoto. Delbono la morte la racconta così, senza schermi di sorta, passando dal funerale di un brigatista (Prospero Gallinari) alle macerie della negletta cittadina abruzzese, poi avvicinando (e riprendendo con lo schermo di un cellulare) il corpo morente e immobile della madre, presa a sussurrare le ultime preghiere e poesie davanti agli occhi dolenti di suo figlio (filtrati  e schermati da quel piccolo dispositivo di ripresa). C'è poi il racconto della morte fatto da Senzani, un trapasso descritto nella lacerante percezione di un uomo che sa di essere colpevole di una ingiusta condanna a morte e che, pure, non muove un dito pur di scongiurare l'imminente tragedia. All'interno, tra le pieghe e le piaghe di questo 'oscuro' racconto, c'è poi il viaggio di Delbono in Albania alla ricerca di un farmaco miracoloso, una pozione magica cercata in un non-luogo che sa di nulla e attraverso un percorso che più di ultima speranza sa di tragitto della consapevolezza, quell'ultimo passo compiuto da un figlio verso l'elaborazione di una morte lacerante e inaccettabile, ovvero quella della propria madre.

Della morte o della vita

Lavoro non facile da guardare e metabolizzare, Sangue soffre sicuramente tutto il peso del valicare il limite di un argomento tabù (nella sua rappresentazione nuda e cruda) come quello della morte, e di farlo senza una struttura narrativa che ne sostenga l'elaborazione. Pippo Delbono pone infatti la morte dinanzi all'occhio dello spettatore con una tale vicinanza e una tale schiettezza da renderlo parte integrante di quel processo ‘elaborativo/commemorativo', che poi si amplia fino a diventare una considerazione escatologica sull'esistenza terrena/cristiana. All'idea di rappresentare l'irrappresentabile si aggiunge poi il tentativo (difficile - per i più - da accettare) di ricondurre a dimensione umana la figura di un uomo (Giovanni Senzani) dalle mani irrimediabilmente macchiate di sangue. È vero, Delbono non filtra, non giudica, e anzi si pone (assieme al suo lavoro) come mezzo (provocatorio) di dislocazione di immagini che stimolano nello spettatore un moto di ribellione, alternato a un senso di dolorosa insofferenza. Ancora una volta espressione del suo essere a tutti i costi politically incorrect, e fino in fondo se stesso, Delbono ci mette nuovamente di fronte tutto il suo sentire, il suo percepire, la sua voglia di condividere con gli altri la sua esperienza di uomo, e artista. Eppure, questa volta la mancanza di un confine, di una barriera risulta fin troppo percepibile, e mentre la distanza tra pubblico e privato si assottiglia sempre di più, cresce il dibattito sul se sia giusto (al cinema) sfruttare così apertamente l'immagine della tragicità e della sofferenza senza un iter prettamente drammaturgico che possa aiutare lo spettatore a comprendere, metabolizzare, forse addirittura condividere. In ogni caso e senza dubbio, trattasi di opera in grado di sollevare riflessioni, sensazioni, e dunque (in questo senso) forse non così priva di un proprio senso espressivo.

Sangue Politicamente scorretto per stessa affermazione del regista, Sangue di Pippo Delbono non ha alcuna remora ad utilizzare il linguaggio forte (visivo e percettivo) di un tema assai spinoso come quello della morte. Eppure, mostrata in tutta la sua dimensione privata e umana, la Morte narrata da Sangue è in fondo un disinibito canto alla vita, un mezzo provocatorio usato per riflettere sull’importanza di stringere a sé le persone care pur sempre memori dell’onere che la libertà della vita sottende. Arrivare a cogliere, però, il senso ultimo del lavoro di Delbono nel suo essere assai ‘indigesto’ e consapevolmente imperfetto (per via anche di una canonica struttura narrativa) non è facile né scontato. Per riuscire nel proposito vanno infatti superati tutti i tabù e gli ostacoli di una 'messa in scena' che mostra la tragicità (e dunque anche il valore) della vita senza alcuna maschera e (quasi) senza alcuna forma.

5.5

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