Recensione Race - Il colore della vittoria

Nel 1936 si svolgono le Olimpiadi di Berlino durante il regime nazionalsocialista di Adolf Hitler: la razza ariana ha l'occasione di dimostrarsi superiore dinanzi a tutto il mondo, ma fallisce dinanzi al leggendario J.C. Owens.

Recensione Race - Il colore della vittoria
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Il 13 maggio del 1931 la Germania democratica vince la possibilità di organizzare i Giochi della XI Olimpiade, pronta ad accogliere 49 Paesi nella propria capitale, Berlino, nel mese di agosto, nel pieno del periodo estivo. La Germania che viene scelta per la manifestazione, per succedere ai giochi di Los Angeles, non è ancora la nazione governata da Adolf Hitler, che, quando nel 1933 sale al potere, ragiona molto attentamente sulla possibilità di rinunciare ai Giochi. Poi, però, qualcosa cambia: il partito nazionalsocialista sfoggia la mente dietro la propaganda. Joseph Goebbels mostra al Fuhrer la strada: i Giochi permetteranno alla razza ariana di dimostrarsi, dinanzi a tutto il mondo, perfetta e insuperabile. Il ministro della propaganda, però, non aveva fatto i conti con l'uomo più veloce del mondo: l'afroamericano J.C. Owens.


IL COLORE DEL TEMPO

Sono trascorsi esattamente 35 anni dalla morte di J.C. Owens, detto Jesse, l'atleta di colore che riuscì a conquistare Berlino nel 1936 con la vittoria di quattro medaglie olimpiche, dimostrandosi l'uomo più veloce al mondo. Le vicende dell'atleta, raccontate in Race - Il colore della vittoria, sono infarcite di numerosi atti razziali da parte della storia che non confluiscono necessariamente solo nella reazione di Hitler, e dell'intera Germania nazista, nel vedere un nero vincere le Olimpiadi, ma anche in quelle che furono le decisioni dell'America dei tempi: da Franklin Delano Roosevelt, che decise di non ricevere mai Owens alla Casa Bianca, fino a gran parte del popolo statunitense, che difficilmente accettò la presenza di quello che divenne un simbolo della lotta alla discriminazione ai piani alti della società. Se dalla sua morte sono trascorsi 35 anni, però, da quell'impresa ne sono passati ben 80, tantissimi se pensiamo a quanto questa storia possa essere attuale in qualsiasi momento, in qualsiasi epoca storica, essendo l'uomo ancora inevitabilmente piegato alle vicende razziali. Altrettanto sorprendente è l'aver affidato una produzione così evocativa, così narrativamente capace di trasmettere sensazioni forti, a una sceneggiatura e a una regia che non premiano quelli che sono punti focali della vicenda. Le licenze poetiche sulla storia reale ci sono, non si presentano in maniera eccessivamente vistose ma sono comunque presenti e visibili, soprattutto là dove si è voluto premere eccessivamente il tasto dell'amicizia tra Jesse Owens e Luz Long, atleta feticcio di Hitler che tradisce l'ideale del partito nazista aiutando l'atleta americano nel momento di difficoltà. Allo stesso modo è eccessivamente rimarcato il carattere spigoloso di Leni Riefenstahl, la regista di Olympia, il film sulle Olimpiadi del '36, che la porta a rivolgersi in maniera quasi dissacrante nei confronti di Joseph Goebbels. Quasi una ribellione dialettica nei confronti di chi rivestiva un ruolo se non primario, non meno di secondario, nel Terzo Reich.

"RIPETETE UNA BUGIA CENTO VOLTE..."

Sul ministro della propaganda, però, è giusto spendere qualche parola, perché se la sceneggiatura deve, mestamente, accogliere le critiche fino a ora avanzate, deve anche incassare con piacere il plauso per la realizzazione impeccabile di quella che è la figura di Joseph Goebbels, un uomo al cui passare la Germania si alzava, forse più con timore di quanto avrebbe fatto dinanzi al Fuhrer, che incuteva soltanto terrore per il ruolo che ricopriva. Un uomo basso, non aitante, silenzioso e cupo, dai tratti spigolosi e solenni, per niente interessato a dibattiti in lingue che non gli appartengono, desideroso di parlare soltanto il tedesco, capace di intessere accordi anche con gli avversari per poi girarli a proprio favore. Uno stratega della comunicazione, un architetto di quella che fu una propaganda micidiale e che permette a Barbany Metschurat di provare un ruolo diverso da quelli vissuti nel cinema domestico. È nel disegno dei singoli personaggi che, infatti, Race riesce a esaltarsi, come accade anche per Stephan James, il protagonista della vicenda, che si era già lasciato apprezzare in Selma: la sua aderenza al personaggio è anche fisica, rispettando quelli che erano i canoni del velocista, tanto da impegnarsi anche nelle corse che vedevano Jesse Owens trionfare con pacatezza e tranquillità. E per continuare a cavalcare l'onda dei personaggi riusciti non possiamo non meravigliarci di un Jason Sudeikis completamente nuovo: sebbene l'occhio in alcune occasioni spinga l'attore alla smorfia da commedia, alla reazione da mediocre dipendente di un boss da uccidere, l'attore si dimostra convincente e quantomai azzeccato nei panni di Larry Snyder, il coach che risponde a tutti i cliché tipici dell'allenatore che ottiene la ribalta grazie al suo atleta più riconoscente e più vincente di sempre.

Race, in ogni caso, ha un solo compito, al momento, che è quello di far emergere l'incredibile storia di un altrettanto incredibile atleta al quale non è mai stata consegnata la giusta onorificenza: la Casa Bianca non gli riconobbe il successo ottenuto alle Olimpiadi di Berlino, così come il mondo, probabilmente, non gli riconobbe, al tempo, il successo ottenuto per la battaglia contro la discriminazione razziale, che vinse sotto gli occhi di Adolf Hitler. Se da un lato il Fuhrer si rifiutò di stringergli la mano, dall'altra Roosevelt non si congratulò con il suo atleta per il traguardo raggiunto: là dove la Germania peccò, l'America non volle essere da meno. Ma in questo scenario, sprezzante di qualsiasi problematica, J.C. Owens ne uscì vincitore. Con qualche licenza poetica in meno, con una sceneggiatura più ispirata e capace di sfruttare al meglio il soggetto a disposizione, staremmo parlando di un film realmente ben riuscito, un biopic vincente e appassionante. Purtroppo dobbiamo arrenderci a una piacevole pellicola che racconta una storia che ci appassionerebbe comunque in qualsiasi altra forma.

Race - Il colore della vittoria Una finestra sul mondo del razzismo, una finestra sul passato: Race è tutto questo, ma è anche una balconata troppo schiava del pettegolezzo, che va a inficiare la storia di un eroe morale con sottigliezze tipiche di chi sale alla ribalta, dagli amori ai tradimenti, dalle battutine scontate al voler necessariamente impreziosire le vicende umane con una vita disagiata e disgraziata. Dei cliché che risaltano soltanto l'inadeguatezza della sceneggiatura a raccontare una vicenda tanto grande quanto importante, che avrebbe meritato maggior visibilità e maggior plauso.

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