Recensione Rabin, the Last Day

Cinema a servizio della verità quello di Amos Gitai, che porta alla luce l'assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin tra filmati di repertorio e sequenze girate, raccontando il caso che ha cambiato la storia dello Stato di Israele.

Recensione Rabin, the Last Day
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La sera di sabato 4 novembre 1995 a Tel Aviv, capitale dello Stato di Israele, la piazza principale è gremita: gli Israeliani sono in attesa del comizio del loro primo ministro, Yitzhak Rabin, un evento imponente la cui portata era inaspettata anche dal suo stesso protagonista. Rabin parla di pace, la stessa che l'ha portato a cercare assieme a Simon Peres un accordo con Yasser Arafat per cercare di appianare le divergenze con la Palestina, al fine di trovare un punto di incontro che potesse mettere fine ad un conflitto eterno e sfiancante per entrambe le parti in causa.
La sera di sabato 4 novembre 1995 a Tel Aviv la parola shalom, pace, viene ripetuta quasi in maniera ossessiva. Nelle labbra di Rabin, negli striscioni dei manifestanti, negli applausi della gente - viene sussurrata, urlata, affermata con convinzione e per un momento fatta reale, tangibile. Si finisce quasi per toccarla quell'idea di pace, prima che Ygal Amir, un colono ebreo estremista, decida di frantumarla in tre colpi di pistola uccidendo un Primo Ministro, un Premio Nobel per la pace, una persona. Ma soprattutto una speranza.
La sera di sabato 4 novembre 1995 fa da apripista al racconto di Amos Gitai, che intitola il suo film Rabin, the Last Day definendo la storia all'ultimo giorno di vita del primo ministro israeliano anche se, di fatto, quell'ultimo giorno del titolo è forse quello in cui si è smesso di sperare e si è iniziato a disperare. Nella pistola di Ygal Amir infatti Amos Gitai non contestualizza solo un gesto, ma ingloba una serie di problematiche oscure e terrificanti che dimostrano come quei proiettili siano solo la punta dell'iceberg.

Tra rabbini estremisti, politicanti e violenza religiosa nel cuore d'Israele

Sono passati vent'anni dall'assassinio di Yitzhak Rabin, un evento che di fatto ha cambiato le sorti dello Stato di Israele: l'impegno politico di Amos Gitai, che la guerra l'ha vista negli occhi, non può esimersi dal celebrare l'anniversario cercando di far luce sulle cause che hanno scatenato questo evento - scoperchiando di fatto un vaso di Pandora. Davanti alla macchina da presa di Gitai si dispiega una vera e propria sottocultura dell'odio alimentata da una religiosità violenta ed isterica, da paranoici intrighi politici. Rabbini intenti in rituali di maledizioni, militanti politici per cui la parola pace era sinonimo di tradimento circondano umani errori di organizzazione compiuti dai servizi segreti e dalla polizia: Amos Gitai ricostruisce pezzo dopo pezzo ogni elemento, creando una pellicola che riesce ad amalgamare magistralmente ricostruzioni fittizie ed immagini di repertorio, restituendo una lucida cronaca degli eventi ed allo stesso tempo una profonda riflessione contemporanea. Vent'anni dopo, dove siamo? Gitai sembra chiederselo, e risponde puntando la pistola di Ygal Amir direttamente in macchina, come a voler dire che siamo ancora lì, davanti ad un grilletto. Le persone che hanno permesso quell'assassinio sono a piede libero ed ammiccano alla poltrona che è stata di Rabin. La violenza religiosa continua a crescere, l'idea politica di una democrazia pacifica nello stato di Israele continua a perdersi a favore di una crescente matrice estremista perfino nel cuore della società laica israeliana. Il giorno in cui le sofferenze del popolo di Israele saranno solo un ricordo è ancora lontano.

Un racconto lucido ed articolato, che svela una vicenda fin troppo attuale

Nel suo racconto Gitai non ha paura di mescolare stili e generi diversi, unendo immagini di repertorio a potenti soggettive, piani sequenza, contrapposti a classiche interviste a fondo nero in campo e controcampo. Perfino nella ricostruzione delle udienze della Commissione Shamgar, incaricata di far luce sugli eventi del 4 novembre, non risparmia dettagli sulle ferite e sul loro trattamento medico, sul ruolo della guardia del corpo di Rabin, sulle mancanze della polizia - e lo fa con lucidità ed attenzione ai dettagli. Diverso il discorso sulle immagini di repertorio, dove a parlare è la semplicità diretta di Rabin, la sua integrità nella speranza di poter fornire al paese una valida alternativa al fondamentalismo religioso fatto di canti, maledizioni, convinzioni distruttive. "mi sono sacrificato per lo Stato di Israele", dichiara Ygal Amir nel suo interrogatorio, e rimane in silenzio alla domanda "lo stato di Israele ha chiesto questo sacrificio?", mostrando un'isterica retorica militante che di fronte ai nostri occhi distrugge lo stato di Israele, ieri come oggi. Gitai riesce a raccontarlo in maniera lucida ed articolata, con un film che rende giustizia a Yitzhak Rabin e al suo pensiero: una delle più belle sorprese del Festival di Venezia.

Rabin, the Last Day A vent'anni dall'assassinio del premio Nobel per la pace Yitzhak Rabin, Amos Gitai analizza le cause e le conseguenze dell'evento che ha cambiato le sorti dello Stato di Israele in Rabin, the Last Day. Tra filmati d'archivio e sequenze girate con una lucidità ed un'attenzione impressionanti, Gitai restituisce un briciolo di verità ad una vicenda macchiata di estremismo, di isteria religiosa e di tanti, forse troppi punti ancora oscuri. Un film che si fa inchiesta ed offre un punto di vista attualissimo sulla realtà di Israele, con l'intelligenza e l'estetismo ai quali Gitai ci ha ampiamente abituati.

8

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