OldBoym la recensione del remake di Spike Lee

Spike Lee rilegge Park Chan-wook

OldBoym la recensione del remake di Spike Lee
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"Non ho mai pensato a Oldboy come un remake, l'ho visto più come un'interpretazione di una grande storia che può essere rappresentata in tanti modi diversi. Park Chan-wook ha fatto un grande film , ma, ancor prima, la fonte originale è il manga giapponese - e questo mio progetto è l'opportunità di dare una nuova narrazione al materiale".
Con queste parole, il due volte candidato al premio Oscar Spike Lee - autore di Fa' la cosa giusta e Inside man - sintetizza il suo approccio alla realizzazione del rifacimento di Oldboy, che, diretto nel 2003 da Park Chan-wook attingendo da un fumetto giapponese in otto volumi creato da Tsuchiya Garon e disegnato da Mineghishi Nobuaki, altro non è che il secondo tassello della trilogia della vendetta iniziata dal regista coreano, l'anno precedente, tramite Mr. Vendetta e conclusa dallo stesso, nel 2005, con Lady Vendetta.
Un tassello aggiudicatosi il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e che, nel raccontare su schermo una estrema storia di riscatto, poneva al proprio centro il tempo, a partire dai titoli di testa che presentavano caratteri ruotanti in senso orario e altri che scorrevano come i secondi negli orologi digitali; perché, come spiegò lo stesso Park Chan-wook: "La vendetta in sé esiste perché non siamo riusciti a dimenticare il passato, quindi il rapporto tra questa e i ricordi è di mutua esistenza, a meno che non si riescano a lasciare indietro i ricordi. In Oldboy il protagonista cresce fisicamente, ma rimane con l'animo nel passato, quindi non riesce a liberarsi del suo desiderio di vendetta".

Il vecchio ragazzo coreano

Un tassello che vide il Choi Min-Sik di Ebbro d'amore e di pittura nei panni del padre di famiglia Oh Dae-soo che, una sera del 1988, senza motivo apparente veniva rapito e rinchiuso in una prigione privata nella quale, in contatto con il mondo esterno soltanto attraverso un televisore, trascorreva quindici anni per poi essere inaspettatamente rilasciato.
Ed era proprio grazie al televisore che, nel corso della sua reclusione, apprendeva di essere il principale indiziato dell'omicidio della moglie, ritrovandosi quindi a trasformare tutta la rabbia interiore accumulata con il passare degli anni, una volta libero, in una inarrestabile sete di vendetta nei confronti del suo misterioso rapitore.
Mentre faceva anche conoscenza con Mi-do, ovvero Gang Hye-Jung, ragazza lavorante in un ristorante, e venivamo progressivamente a scoprire, inoltre, che l'intento dell'uomo non era solamente quello di dare un volto all'ignoto personaggio, bensì di far luce sulla motivazione del sequestro.

Il vecchio ragazzo americano

In questa rilettura a stelle e strisce - per concepire la quale Lee afferma di essersi impegnato nel rispetto del film di partenza ma non a copiarlo - il corrispettivo senza occhi a mandorla di Oh Dae-soo è Joe Doucett alias Josh"Gangster squad"Brolin, dirigente pubblicitario in declino e padre assente che una notte, ubriaco, come nella pellicola originale viene rapito e costretto in un terribile e noioso isolamento all'interno di un bizzarro motel destinato a diventare la sua cella per vent'anni pieni di tormento, che passano senza alcuna indicazione riguardo l'identità o il movente del suo sequestratore.
Fino al momento in cui, appunto, anche qui si ritrova inspiegabilmente liberato per tornare alla vita di tutti i giorni, ma con l'ossessione di individuare l'ignota persona che ha orchestrato quella diabolica punizione; man mano che sulla propria strada incontra non solo la giovane assistente sociale Marie Sebastian, con le fattezze della Elizabeth Olsen di Red lights, ma anche il piuttosto sfuggente Adrian, interpretato dallo Sharlto Copley di District 9, presumibilmente in possesso della chiave del suo rilascio.

Vent'anni e non sentir...Lee

Sostanzialmente, quindi, con i ricordi e la sete di vendetta quali elementi principali della vicenda, la versione di Spike Lee rimane piuttosto fedele a quella di Park Chan-wook, finendo proprio per questo, però, di rischiare di dare al pubblico uno spettacolo di cui, praticamente, già conosce tutti i risvolti.
Anche perché la sceneggiatura dell'Oldboy del 2003, che, pur senza rinunciare all'ironia tipica dei manga movie, fondeva in maniera altamente efficace dramma interiore ed azione tinta di splatter, riusciva nell'impresa di rendere pienamente partecipe lo spettatore grazie alla graduale emersione di indizi atti a condurlo verso la shockante rivelazione finale.
Rivelazione in questo caso in parte cambiata, come pure la memorabile, insostenibile sequenza della tortura odontoiatrica, sostituita da una meno incisiva eseguita tramite l'utilizzo di un taglierino sul collo di Samuel L. Jackson.
E già quest'ultimo aspetto, complici inoltre i momenti di scontro corpo a corpo non troppo distanti da quelli visti in diversi cineVgame, nonostante la presenza di martellate in pieno cranio lascia intuire la perdita di quel realismo che aveva contribuito non poco a mutare istantaneamente in capolavoro della Settima arte il capostipite; la cui estrema esaltazione grafica della violenza non appariva mai gratuita, ma, paradossalmente, tutt'altro che sadica e capace di spingere alla riflessione, anziché mirata al coinvolgente intrattenimento.
Al quale sembra mirare, invece, proprio questa oltre ora e quaranta di visione, che, intenta inoltre a ribadire che la gente crede in tutto ciò che viene mostrato dalla televisione, non solo risulta decisamente piatta nell'orchestrare il lento ritmo narrativo, ma sfoggia anche una certa approssimazione sia nel fatto che i personaggi mutino pochissimo il loro aspetto esteriore nel passaggio di vent'anni, sia nel mettere in scena un protagonista a quanto pare tranquillamente capace di usare moderne tecnologie, nonostante la sua reclusione cominciata nel 1993.
Insomma, a rimanerne soddisfatti potranno essere soltanto coloro che non hanno avuto modo di assistere al già classico coreano, in quanto si troveranno dinanzi a un soggetto per loro del tutto nuovo e avvincente.

Oldboy Vendicarsi fa bene alla salute, ma che succede una volta che ti sei vendicato? Il dolore tornerà a cercarti? È su questi interrogativi che, nel 2003, si basò principalmente Oldboy di Park Chan-wook, capolavoro d’inizio terzo millennio dai risvolti altamente sorprendenti e non privo di poesia che, fondendo abilmente una messa in scena decisamente autoriale e temi tipici dei film d’intrattenimento, lasciava emergere un certo reclamo del diritto di vivere. Un autentico classico della Settima arte volto a esporre la cattiveria dell’uomo, ben lontana da qualsiasi artificiosa rappresentazione cinematografica, e di cui l’acclamato cineasta afroamericano Spike Lee rispolvera il soggetto attraverso un rifacimento a stelle e strisce che, però, riesce a conquistare soltanto gli spettatori che non sono a conoscenza della pellicola originale. Perché la storia è sempre avvincente, ma qui messa in scena con molta più approssimazione ed abbondantemente privata del realismo che impreziosì l’opera di Park Chan-wook.

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