Recensione Nord

Film norvegese del 2009

Recensione Nord
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"Nel 2005 ho attraversato un periodo di forte depressione, con frequenti attacchi di ansia e di panico. Un giorno sono passato davanti al vecchio ski lift che usavo quando ero bambino. Mi sono fermato e ho cominciato a pensare a tutti quei personaggi bizzarri che, negli anni, avevano lavorato lì. Sempre arrabbiati, esauriti e pieni di alcool. E' stato lì, mentre ricordavo, che Jomar - il protagonista - ha preso vita".
Così, Rune Denstad Langlo racconta la genesi di quello che possiamo tranquillamente definire il suo primo lungometraggio di finzione, dopo aver lavorato per dieci anni come regista e produttore nell'ambito del documentario realizzando Alt for Norge (2005), co-diretto da Sigve Endresen, e 99% ærlig (2008).
Un lungometraggio finanziato dalla Motlys, una delle più importanti società di produzione scandinave di film e documentari (Big boys don't cry, For your life e Living amost lions nella filmografia), e che, aggiudicatosi il premio per la miglior regia presso l'edizione 2009 del Tribeca Film Festival, vede il noto attore norvegese Anders Baasmo Christiansen - vincitore nel 2004 dell'Amanda Award per Buddy di Morten Tyldum - nei panni di Jomar, il quale, in seguito ad una depressione fulminante, ha finito con il perdere la propria compagna e la promettente carriera di campione di sci.
Quindi, si parte dal momento in cui, uscito dall'ospedale psichiatrico dove era in cura, decide di percorrere in condizioni precarie, su una motoslitta, gli 890 chilometri che lo separano dalla donna, in quanto ha appena appreso da un amico che, tra le varie cose perse nel frattempo, c'è anche un figlio.

Il bianco della solitudine

Ed è inutile stare a precisare che, nel corso dei 78 minuti di visione la cui idea di partenza può richiamare vagamente alla memoria sia Into the wild-Nelle terre selvagge (2007) di Sean Penn che Una storia vera (1999) di David Lynch, a dominare sia soprattutto il bianco della neve imperante.
Bianco esaltato dalla curata fotografia per mano di Philip Øgaard (Il regno d'inverno), la quale, capace di enfatizzare una certa atmosfera di gelo anche nei riscaldati interni, rientra di sicuro tra i maggiori pregi dell'operazione, costruita su una sceneggiatura di Erlend Loe (Tre ragazzi per un bottino).
Sceneggiatura da road movie che, accompagnata da una colonna sonora niente male in mezzo alla sensazionale bellezza del paesaggio artico, va a tirare progressivamente in ballo i personaggi più improbabili, da una bambina a un anziano, destinati a porsi di volta in volta sul tragitto del protagonista.
Tutti individui che, a causa della loro diversa età, lasciano quasi interpretare la vicenda, probabile riflessione sui grandi sacrifici affrontati da un genitore per l'amore del proprio figlio, come una allegoria relativa al duro percorso di crescita; in realtà, però, non siamo altro che dinanzi a concrete solitudini venate ognuna di una diversa forma di follia.
Sarebbe infatti sufficiente citare la sequenza in cui uno strano giovane arriva a sottoporre Jomar a un bizzarro "giochetto" con tanto di assorbenti sulla testa, regalando quello che rimane di certo il momento più divertente del film.
Perché, pur trattandosi di un elaborato dai tratti drammatici attraversato da un poco incalzante ritmo narrativo tutt'altro che vicino a quello tipico delle produzioni americane e italiane, l'ironia non è affatto assente.
Anche se, sicuramente più adatto ad una fruizione festivaliera, con molta difficoltà riuscirà a conquistare gli spettatori dello stivale del globo, maggiormente orientati verso il blockbuster a stelle e strisce e il facile intrattenimento da battuta grassa.

Nord Autore dei documentari Alt for Norge (2005) e 99% ærlig (2008), Rune Denstad Langlo racconta nel suo primo lungometraggio di finzione la vicenda on the road di un uomo che, appena uscito da un ospedale psichiatrico, decide di percorrere 890 chilometri in motoslitta per raggiungere il figlio che neanche sapeva di avere. Tra bella fotografia, colonna sonora tutt’altro che disprezzabile e un’indispensabile spruzzata d’ironia, quelli che scorrono sullo schermo sono 78 minuti di visione volti con ogni probabilità a fornire sì una riflessione relativa ai grandi sacrifici affrontati da un genitore per l’amore del proprio figlio, ma anche a porre all’attenzione dello spettatore una galleria di concrete solitudini venate ognuna di una diversa forma di follia. Per uno spettacolo che, sicuramente adatto ad una fruizione festivaliera e costruito su un poco incalzante ritmo narrativo, tipico delle produzioni scandinave, con molta difficoltà potrà essere apprezzato dal pubblico italiano medio, sempre più orientato verso il facile intrattenimento nostrano e non.

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