Recensione Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore

Wes Anderson narra la magia di un mondo diverso in cui primeggia la musicalità del sentimento

Recensione Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore
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Su un'isola del New England sorge l'accampamento Ivanhoe dei Cachi Scout, capitanato dal solerte (ma non troppo) Ward (Edward Norton) e del quale fa parte anche l'occhialuto Sam Shakusky, dodicenne acuto e introverso. Sulla stessa isola, non molto lontano, in una lussuosa villa a più piani, abita anche la piccola Suzy, tormentata dalla convivenza con due genitori assenti e assillanti. Basterà l'incontro galeotto di una recita al campo estivo (al quale entrambi parteciperanno) per far scattare il colpo di fulmine classico di chi (riconoscendosi estraneo al mondo circostante) è alla disperata ricerca di un'altra esistenza solitaria. Un'occhiata passata attraverso un paio di lenti e una maschera da corvo che sarà sufficiente a generare il bisogno di unirsi nella ribellione verso un mondo che non trasmette affetto (la sterilità famigliare di Suzy) o solidarietà (la difficoltà d'integrazione nel gruppo scout di Sam). Un anno di missive ingenue e appassionate e poi la fuga, pianificata con dovizia di dettagli e scrupolosa attenzione, verso un luogo distante (ma neanche troppo) dove costruire dal nulla una nuova vita. Ma a breve distanza dal piano attuato, la scomparsa dei due ragazzini verrà ricollegata alla fuga amorosa e partiranno, frenetiche, le ricerche. Sulle tracce dei due fuggitivi si metteranno non solo il Capo scout Ward e i genitori di Suzy (tra cui il zelante avvocato interpretato da Bill Murray), ma anche le forze congiunte di polizia (l'indolente comandate Sharp interpretato da Bruce Willis) e dell'irritante Assistente Sociale (Tilda Swinton). Un inseguimento vano se visto dagli occhi dei due protagonisti, il cui gesto non rappresenta tanto una fuga reale quanto una fuga simbolica (e dunque inarrestabile) da un modo incapace di vedere "quell'essenziale invisibile agli occhi".

(Sur)realismo

Al levarsi della luna (Moonrise), il Regno (Kingdom) di Wes Anderson prende magicamente vita, avvolto da un giallo crepuscolare in cui la storia di due giovanissimi fuggiaschi in preda all'amore e sulle note di una partitura in divenire diventa il mezzo per guardare alla vita con occhi nuovi, sfruttare la magia di una lente che ci permetta di vedere vicine cose che in realtà vicine non sono. Un'avventura filmica volta a scomporre e ricomporre il sistema-vita attraverso la metafora di un'orchestra, in cui ogni strumento ha un suo ruolo ma ha bisogno di tutti gli altri per mettere in piedi la sua fuga. E infatti così, proprio come Benjamin Britten scompose il tema di Purcell per realizzare la sua Guida all'orchestra per giovani, Wes Anderson scompone il suo film per realizzare variazioni e ‘fughe' sul tema della vita. Wes Anderson (I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling), un regista che ha il suo tratto maggiormente distintivo nelle proiezioni del reale in cui inscrive i suoi film, realizza stavolta una vera e propria sinfonia di personaggi rispetto ai quali i due protagonisti (i bravissimi esordienti Jared Gilman e Kara Hayward) appaiono visibilmente ‘scordati'. Eppure, nella loro totale astrazione dal mondo circostante, i due piccoli antieroi Sam e Suzy rappresentano la sana voglia di fuggire da una vita di adulti e bambini-che-saranno-adulti costretti a portare sempre la loro maschera (che sia la divisa degli scout o il travestimento della festa poco conta). Da questo mondo di burattini tristi (il poliziotto di Bruce Willis), rapaci (l'assistente sociale) o colpevolmente assenti (i genitori di Suzy), i due innamorati proveranno a scappare, portando scompiglio nello schema di quel mondo, ma ritrovando l'armonia di una realtà a loro uso e consumo (splendido il sincronismo con cui affronteranno la fuga e poi daranno vita al loro nido) che parla a gran voce di rispetto e sensibilità. Un momento d'evasione che infrangerà la routine del mondo esterno, spazzando via ogni realtà meccanicamente precostituita, e riportando in auge il valore della diversità in quanto dono di unicità. Un poetico surrealismo visivo che, a poco a poco, si trasforma in una ventata d'amore per la vita e per quella capacità (sempre più rara) di vivere ogni giorno come se fosse il primo (o l'ultimo), e dunque smisuratamente speciale.

Moonrise Kingdom Tutto in Moonrise Kingdom è splendidamente accarezzato da un garbo stilistico (il calore delle immagini) e visivo (basti pensare alla delicatezza dell'incontro pro-fuga in un campo sterminato o alla dolcezza del primo e impacciato bacio dei protagonisti) che coinvolge la scrittura (realizzata dallo stesso Anderson insieme all’amico Roman Coppola) e anche lo splendido tappeto sonoro a cura dell’infallibile Alexandre Desplat. Una commovente storia di bambini ‘fiabescamente’ maturi alla prese con un mondo adulto corrotto dagli schemi ed essenzialmente privo di bellezza. Un’opera tenera e toccante con cui Wes Anderson narra la magia (e la speranza) di un mondo diverso in cui primeggia la musicalità del sentimento.

8

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