Recensione Moebius

Kim Ki-Duk torna al Lido con un film sul potere autodistruttivo dell'istinto sessuale

Recensione Moebius
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Con tutta probabilità il più celebre regista coreano e uno dei più influenti della scena asiatica, Kim Ki-Duk è un affezionato frequentatore del Lido, dove ha vinto un Leone d'Argento nel 2004 con Ferro 3 - La casa vuota e un Leone d'Oro giusto l'annata scorsa, con il crudo Pietà. Quest'anno l'autore sudcoreano torna al Festival fuori concorso, con un film, Moebius, che gli ha creato non pochi problemi in patria, dove non ha superato indenne la censura a causa delle tematiche della pellicola e delle sue rappresentazioni esplicite. Ki-Duk, infatti, non si fa molte remore a rappresentare l'anelito al sesso che caratterizza l'essere umano, in una sequela di situazioni chiaramente tabù per una società abbastanza repressiva come quella coreana.
In appena un'ora e mezza assistiamo difatti alle vicissitudini di una anonima (in tutti i sensi) famiglia borghese che, già disfunzionale di suo, perde ogni contatto con la realtà nel momento in cui il pater familias reitera, esplicitamente, i suoi tradimenti con un'amante più giovane: la moglie, nella pazzia della sua frustrazione, giungerà a compiere gesti estremi che precipiteranno lei, lui, il loro figlio nonché l'amante di lui in una spirale senza fine di perversione e disperata ricerca del piacere e di una “normalità” impossibile da ritrovare.

Ossessione virile

Ogni nostro gesto porta a conseguenze, a volte tragiche: è un monito che nel film di Kim Ki-Duk brilla imperituro, data l'entità di situazioni drammatiche che i protagonisti vivono in conseguenza delle loro azioni. È un film che vive innanzitutto di silenzi: per novanta minuti saranno la potenza delle immagini, gli effetti sonori, le musiche sempre discrete e poco più che mugugnii a portarci nella mente dei protagonisti, senza alcun dialogo a spiegarci quel che accade o le motivazioni di quello che succede. Potrebbe apparire come un ostacolo alla comprensione della trama e delle situazioni (e solitamente è così) ma in realtà Moebius è un film molto meno criptico di quel che si potrebbe pensare: gli attori, coadiuvati sempre da inquadrature ad hoc, rescono sempre a rendere incredibilmente espressive le scene, rendendo davvero superflui i dialoghi.
Per certi versi il film ricorda, per approccio e tematiche, lo Shame di Steve McQueen con Michael Fassbender, grande successo proprio qui al Lido appena due anni fa.
Anche nella pellicola sudcoreana, difatti, tutto ruota attorno al sesso e al bisogno di esso, come istinto primordiale che va soddisfatto compulsivamente, e senza il quale non ci si sente uomini, non ci si sente vivi, pur essendone (o divenendone) schiavi. La componente autodistruttiva della cosa è palese: si arriva a ferirsi, punirsi, immolarsi, pur di dare adito e sfogo a questo istinto primordiale. Che prosegue all'infinito, in un eterno ciclo simboleggiato, per l'appunto, dal famoso nastro di Möbius.

Moebius Kim Ki-Duk torna al Lido con un film sulle pulsioni sessuali, sulle sue crescenti ossessioni, sul bisogno compulsivo di soddisfarle pur non riuscendoci davvero mai, in una spirale autodistruttiva infinita. Se l'idea è interessante e la resa visiva è incredibilmente espressiva, la pellicola purtroppo pecca di presunzione non riuscendo ad essere adeguatamente “seria” nelle sue visioni, scadendo spesso nel grottesco se non nel ridicolo involontario di molte scene (che non vi descriviamo ma che, vi assicuriamo, sono realmente assurde). Già dopo pochi minuti il tutto si trasforma in farsa, con azioni-reazioni perfettamente coerenti col minuto corrente ma assolutamente insensate in relazione ad una storia presentata come “seria”, al di là dell'umorismo che dovrebbe stemperarne i toni. Moebius sicuramente spiazza, ma non sempre in positivo. Consigliato solo ai fan del Maestro e agli appassionati del cinema “alternativo a tutti i costi”.

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