Recensione Mistress America

Quando Noah Baumbach e Greta Gerwig fanno un film insieme, il risultato diventa sempre un dilagante fiume di parole e conversazioni interminabili che cercano di raccontare personalità, più che storie. Struttura che ritroviamo anche in Mistress America.

Recensione Mistress America
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Nel mondo del cinema si usa spesso dire, a proposito del lavoro di un determinato regista, che lo si può solo amare o odiare, senza nessuna via di mezzo. In molti casi si tratta di una esagerazione, di una provocazione o semplicemente di una giustificazione: ma questo semplicistico modo di dire ha, ovviamente, anche delle basi di verità, che si ritrovano per esempio nel lavoro di Noah Baumbach, perlomeno nei suoi ultimi film da regista, che sembrano seguire tutti una stessa linea narrativa, affidata a una città iconica e a dei personaggi ricchi di cinismo e illusioni, che alla fine tendono tutti a disintegrarsi su loro stessi. La collaborazione tra Baumbach e Greta Gerwig, sua attuale compagna, aveva già portato a Frances Ha, un film molto discusso e apprezzato negli ambienti indipendenti, quanto dichiarato incomprensibile e inconcludente in quelli più commerciali. E Mistress America non si discosta molto da quel primo lavoro: pur affidando le redini del racconto a un personaggio diverso, insicuro e completamente perso, sono il carisma e la logorrea confusionaria della Gerwig a pilotare completamente il film.

Un posto speciale

Tracy (Lola Kirke) si è trasferita a New York pensando che questa città le avrebbe regalato il periodo migliore della sua vita ma, dopo il primo semestre al college, ha già perso ogni speranza. La sua coinquilina la odia, le lezioni sono pesanti, il ragazzo che le piace è fidanzato con un'altra e la società letteraria, in cui tanto sperava di entrare, non fa che rifiutare i suoi racconti. Tutto cambia quando decide di contattare la sua futura sorellastra Brooke (Greta Gerwig), una vera e propria stella di tutti gli ambienti più cool della città. A fianco di Brooke tutto sembra stupendo, interessante e inaspettato e Tracy desidera ardentemente far parte della sua vita e di questo irrefrenabile mondo fatto di idee, conoscenze e libertà. Brooke vorrebbe aprire a Williamsburg un ristorante, che nelle intenzioni sarebbe anche un club letterario, un salone di bellezza, un ritrovo per riflettere: il posto perfetto dove rifugiarsi e sentirsi sempre a casa. Quando una serie di eventi le bloccano gli iniziali finanziamenti, non le rimane che provare a chiederli al suo ricco ex (e sicuramente ancora innamorato di lei) fidanzato Dylan (Michael Chernus), che adesso vive con la sua ex migliore amica Mami Claire (Heather Lind).

30 minuti imperdibili?

È proprio a Dylan che dobbiamo i 30 minuti più geniali, complessi, divertenti e ritmici di tutto Mistress America: all'interno della sua immensa ed elegante villa, si mette in scena un dialogo dai tempi comici perfetti, dove sotto battute e atteggiamenti altamente surreali, si nasconde il cuore del film, quella parte originale ma allo stesso tempo assolutamente reale che riesce ad arrivare a tutti gli spettatori, fan o men dell'abituale lavoro di Baumbarch. È un punto di rottura pazzesco, estrapolato ed estemporaneo rispetto a tutto quello che si è visto prima e che ci sarà dopo: al di fuori di questa memorabile unità recitativa, infatti, Mistress America è l'ennesima commedia carina su due amiche che si incontrano, si conoscono, condividono le loro vite e i loro sogni... per poi dover affrontare qualcosa che rovina l'idillio. In questo caso specifico il tutto avviene attraverso lunghe ed eterne chiacchierate, conferenze a due in cui è Brooke, costruita a puntino attorno alla personalità e ai modi di fare di Greta Gerwig, a decidere tutto, dai tempi narrativi agli sfondi scenografici. Ma, diversamente da Frances Ha, il regista prova a rendere tutto più comprensibile e universale affidando la narrazione a Tracy, permettendo al suo punto di vista di fornire una visione dei personaggi più esterna e critica, più accessibile e fruibile.

Mistress America Mistress America non può piacere a tutti, ma ogni tipo di spettatore rintraccerà in questo film almeno un aspetto positivo, qualcosa che lo farà sorridere e riuscirà a connettere questi sopra le righe, eppure assolutamente contemporanei, personaggi a se stessi. Che non è certo cosa da poco. Certo è un progetto in cui i dialoghi valgono più di mille azioni e, a furia di parlare, si prende poco respiro e si perde presto il filo del discorso e le reali motivazioni che spingono ogni personaggio ad agire in quel determinato modo, ma ciò non toglie il suo valore in termini di originalità e specchio della situazione e della personalità, costantemente sull’orlo dello sgretolamento, della giovane società attuale.

7

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