Miami Vice, Michael Mann porta la serie culto al cinema

Il grande Michael Mann tenta, con Miami Vice, l'impresa di trasformare una serie tv di culto in un action movie di successo per il cinema.

Miami Vice, Michael Mann porta la serie culto al cinema
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Il remake, croce e delizia di Hollywood

Quella del remake è una pista battuta sempre più di frequente dal cinema hollywoodiano. Tra horror coreani, kolossal del passato, vecchie glorie della tv, ormai tutto è passato dalle avide manine dei produttori blasonati. Evidentemente ancora in pochi si rendono conto della pericolosità di tali operazioni, pericolosità che raggiunge livelli davvero preoccupanti quando all’indomito regista di turno sovviene la malaugurata idea di cimentarsi con un prodotto anni ’80. Si, perché nel nostro immaginario, forgiato da anni e anni di nostalgici ritorni all’infanzia, infarciti del mai troppo usato “eh ma ti ricordi quando eravamo piccoli, ora non li fanno più quei bei telefilm di una volta...”, tutto ciò che è anni ’80 assume i contorni indefiniti e magici del sogno, ed è investito da un’aura di sacralità che solo le cose che ci hanno reso veramente felici meritano di avere. Si può dire con certezza, quindi, che Michael Mann si sia cacciato da solo in un bel ginepraio, quando ha deciso di realizzare Miami Vice, forse incoraggiato dal fatto che, della serie originale, era già stato uno dei registi e produttori. Ma non è detto che questo, unito all’innegabile abilità del regista nel tratteggiare storie e scenari tipicamente urbani, sia sufficiente a placare gli animi di milioni di fan dall’occhio ben più che critico.

Sonny e Rico a rapporto

Mann ci proietta subito in medias res: i nostri Sonny e Rico (seppur piuttosto diversi, almeno fisicamente, da quelli che eravamo abituati a ricordare) sono impegnati in un’operazione, come sempre in incognito, all’interno di una discoteca in cui, tra luci stroboscopiche e sensuali cubiste, entrambi fanno onore alla propria fama, Tubbs con la sua disciplinata concentrazione, Crockett sfoderando il suo fascino da tombeur de femmes impenitente. La telefonata di un informatore a cui è saltata la copertura, però, manda all’aria i piani dei due detective, che nel giro di pochi attimi si ritrovano catapultati in un gioco ben più pericoloso di quelli che sono abituati a condurre: dovranno infatti infiltrarsi in un’organizzazione che importa droga nel sud della Florida, all’ovvio scopo di sventarne le losche trame e assicurarne i capi alla giustizia. Anche per due professionisti esperti come Sonny e Rico non è facile ottenere la fiducia di colui che è stato indicato loro come il deus ex machina del traffico di stupefacenti, Josè Yero, ma fortunatamente la celeberrima ars amatoria del detective Crockett si rivelerà provvidenziale. L’affascinante Isabella, compagna nientemeno che del signore del narcotraffico internazionale, Arcàngel de Jesùs Montoya, non resisterà infatti a lungo alle lusinghe del bel detective, e rappresenterà di fatto un vero e proprio lasciapassare verso i piani alti dell’organizzazione. Sembrerebbe filare tutto liscio, se non fosse che, anche per il più navigato tutore della legge, è impossibile combattere contro i moti dell’animo, persino quando sembrano incoraggiare un sentimento il cui futuro tutto si prospetta tranne che esente da rischi. Difficile combattere il leader indiscusso della criminalità sudamericana quando si è presi da un amore segnato dal destino avverso, difficile salvaguardare le emozioni quando queste si scagliano contro gli ideali su cui si è forgiata una vita intera. Forse stavolta anche gli indomiti detective di Miami dovranno scendere a compromessi.

Michael Mann a rapporto

Bastano una manciata di scene per rendersi conto che Mann, fedele a se stesso e ai propri fan, non ha lasciato nulla al caso. L’atmosfera della serie originale, seppur trasposta nel contesto inevitabilmente differente della Miami contemporanea, c’è tutta: Sonny e Rico sono ancora quelli di una volta e, nonostante abbiano dismesso il total look Armani, il loro modus operandi al di sopra delle righe (quello che catapulta Crockett verso L’Havana a bordo di un off-shore solo per gustarsi il miglior Mojito del circondario, o che fa eseguire, con facilità disarmante, improbabili manovre stealth al provetto pilota Tubbs) è immutato, così come è immutato il loro legame, non di colleghi, non di amici, ma di uomini, tratteggiato dal regista con un gioco essenziale, ma che difficilmente avrebbe potuto essere più significativo, di gesti, sguardi, parole. C’è chi si accontenterebbe di una bella coppia di protagonisti, ma non Mann, che ci regala dei comprimari ben aldilà delle aspettative, tra cui spiccano un’elegantissima Gong Li, perfetta nel ruolo della donna di potere che, sebbene non abbia bisogno di un uomo, ha comunque bisogno dell’amore, e un azzeccatissimo John Ortiz per Josè Yero, villain a tutto tondo, avido e pragmatico, ma nel contempo divorato dalla gelosia. Sembra quasi superfluo sottolineare come la curatissima fotografia sia uno dei punti forti della pellicola: se già avevamo imparato a conoscere, grazie a capolavori come Heat e Collateral, l’abilità di Mann nel delineare il cinismo e la crudezza della metropoli americana (che tuttavia non è mai apparsa così ammaliante e seducente), grazie ad un’immagine costruita, magari anche un po’ patinata, ma forse proprio per questo di esasperato realismo, è una gradita sorpresa constatare come gli scenari sudamericani siano stati realizzati con la stessa attenzione. La notte di Cuba che seduce Isabella e Sonny seduce anche noi, la diffidenza con la quale i bassifondi di Haiti accolgono e sembrano intrappolare i nostri detective è palpabile, i cieli limpidi offrono uno stridente contrappunto alla decadenza nella quale i protagonisti si trovano invischiati. Se la vista si può considerare completamente appagata, anche l’udito ha ben poco di cui lamentarsi: non solo la colonna sonora, che piega alle proprie esigenze alcuni pezzi tra i più evocativi degli ultimi anni, si attesta su ottimi livelli, ma un apprezzamento particolare va anche nei riguardi degli effetti sonori, davvero efficaci e realistici (come non citare il rombo della F430, sostituta della testarossa bianca che fu una delle icone del telefilm). Un ulteriore plauso al regista per la gestione impeccabile delle scene d’azione, che non solo non si risolvono in un caotico spargimento di sangue, ma sono impreziosite da inquadrature di forte impatto, ancora una volta decisamente aggressive, ma proprio per questo perfettamente in linea con l’estetica della pellicola.

Miami Vice Non era facile l’impresa di trasformare un telefilm culto in un action movie di successo. Ma Mann ha fatto addirittura di più. Si può imputare alla trama un’eccessiva linearità, se non addirittura una certa prevedibilità: difficile credere che gli eroi belli e coraggiosi, pure un po’ strafottenti, alla fine non avranno ragione del cattivo, per giunta umiliato anche sul versante sentimentale. Ma nel cinema non è solo la storia a fare la differenza. Più spesso, è il modo in cui la storia viene raccontata. A Miami non ci sono serial killer schizoidi, non ci sono messaggi in codice da decifrare, e forse quello che credevi essere il tuo migliore amico è davvero il tuo migliore amico e nient’altro; non c’è neanche spazio per un happy ending da favola, non ci sono magici distintivi che frenano le pallottole prima che ti trapassino muscoli e nervi. A Miami c’è la banalità del male, c’è il delitto ordinario, c’è l’ovvia motivazione economica. E forse non c’è niente di più difficile da raccontare del banale, dell’ordinario, dell’ovvio. Ma è poi davvero così scontato se a “vincere” sono quelli per cui tifiamo noi? E’ così prevedibile che un uomo ponga la propria integrità morale davanti alle lusinghe del denaro e persino dell’amore? Guardiamoci intorno, e forse non ci servirà un colpo di scena in più per arrivare alla risposta.

8

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