Recensione Melancholia

Melancholia: l'apocalisse secondo Lars Von Trier

Recensione Melancholia
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L'amato e al tempo stesso odiato, venerato e bistrattato Lars Von Trier riparte dal vinterberghiano Festen, dall'impasse di quei momenti di aggregazione famigliare che di spensierato hanno a malapena la forma (qui la silhouette di un romantico castello con annesso campo da golf e gli sfarzosi abiti da cerimonia), per affrontare il tema cupo (neanche a dirlo) della depressione umana, cui fa da contraltare l'apocalisse terrena. Dunque un viaggio che si prospetta oscuro sin dal titolo (Melancholia) e dalle prime suggestive inquadrature, fermi (o quasi) immagine e scene al rallentatore che scorrono davanti ai nostri occhi per svelare qualche anticipazione di quella che sarà la fine del viaggio che ci apprestiamo a fare, negli abissi della mente umana e verso l'ipotetica fine del mondo. Ma non disperate, almeno non per ora, perché è in un incipit di romantica atmosfera wagneriana e pomposa solennità che il controverso regista danese apre le danze, schiudendo la soglia di quella malinconica valle di lacrime - pervasa da una luce gialla - in cui immergerà la storia di due sorelle divise in vita e unite (forse) dal destino infausto e apocalittico che le attende. E ancora una volta sono loro, le donne, capro espiatorio e simbolo incarnato della dannazione terrestre a immolarsi in un sacrificio che avrà potere catartico ed epifanico ai fini della narrazione. Un film che creerà il solito, incolmabile divario di giudizio tra quelli che ritroveranno intatta nel genio di Von Trier la rappresentazione e percezione di quello stesso cupo mondo che essi stessi immaginano, e quelli che allontaneranno con sdegno le fosche tinte del suo modo di fare cinema, nel bene o nel male sempre fortemente attraversato da rabbia, ingiustizia, dolore e l'amara percezione di una vita terrena invariabilmente ‘cattiva'.

Justine

Nel primo capitolo conosciamo Justine (una vibrante Kirsten Dunst), sguardo e sorriso sospesi nel vuoto, persa - più che presa - nel bel mezzo delle sue nozze dorate (con uno sposo ancora poco addentro al male di vivere della futura moglie) pagate dal ricco cognato, organizzate dall'amorevole sorella (la sempre brava Charlotte Gainsbourg) e affollate da un variegato quanto infiammabile gruppo di parenti e conoscenti (ovviamente della depressa sposa): la pazza e velenosa madre, il padre bighellone, il sadico datore di lavoro pronto a fare i propri interessi con ogni mezzo. Siamo nel clima Festen e dell'atmosfera di gioiosa concitazione, a breve, non rimarranno che un manipolo di vinti, lasciando di nuovo la depressa Justine (incapace di ‘sposare' i vuoti rituali della realtà terrena) a sé stessa e al suo universo, inconciliabile con quello pseudo-normale degli altri, ma che di lì a poco troverà la pace dei sensi grazie a Melancholia (un pianeta che sta compiendo intorno alla terra una suggestiva quanto pericolosa danza di morte).

Claire

Al contrario di sua sorella Justine, Claire è la classica donna del reale, assolutamente a suo agio e (quasi) perfetta nel ruolo di amorevole moglie e madre. Ma sarà proprio l'amore per la vita e per la sua famiglia, quell'attaccamento (quasi irrazionale agli occhi di Von Trier) alle cose terrene, a gettarla nella disperazione (al contrario di sua sorella che invece ritroverà la calma di chi non ha niente da perdere) di fronte alla minaccia di una possibile Fine. Un secondo capitolo in cui le diverse nature delle due sorelle verranno messe a confronto e osservate muoversi nel limbo di un'attesa, aggrappata a una disperata speranza nel caso di Claire, avvolta da una ‘placida' rassegnazione nel caso di Justine. E mentre Melancholia procede nella sua ‘danza di morte' con la Terra, le un tempo unite e ora distanti sorelle sembrano avvicinarsi sempre più, proprio come (sopra di loro) stanno facendo i due pianeti in rotta di collisione.

E si torna a camminare nel fango

Nel liberatorio e scioccante Antichrist, Von Trier parlava del "pianto di tutte le cose che sono destinate a morire". Qui, in una veste ben più elegante e sobria (per i suoi parametri), il regista riprende proprio quel discorso sulla ‘estemporaneità' della vita, ripartendo dal vagito di quel pianto per mostrarci come, paradossalmente, i depressi accettino la fine con una calma quasi sovrannaturale che gli ‘integrati nel mondo' non hanno, annichiliti come sono dalla paura di perdere ciò che hanno nel tempo costruito. Una dinamica che lui, quintessenza del depresso, sembra conoscere molto da vicino e che in Melancholia assume le vivide sembianze di una ragazza che affonda nel fango, osteggiata nel suo cammino dalle ramificazioni filamentose che l'avvolgono. Ed è proprio in questa nitida immagine, inscritta in una storia dal prologo lucidamente malinconico che tende a sfilacciarsi vero l'epilogo, che Von Trier sublima la narrazione del dramma umano per apoteosi, quello della fine cui tutti andiamo incontro. In questo senso sembra quasi che Melancholia rappresenti lo Yin del contemporaneo ma ben più speranzoso The Tree of Life di Terrence Malick. Qualcuno storcerà il naso di fronte all'ardito paragone, eppure, nella loro apodittica differenza di stile, i due registi sembrano convergere verso la stessa ibridazione filmica di terreno e universale, volgendo lo sguardo al cielo e raccontando l'inizio (Malick) e la fine (Von Trier) del mondo attraverso gli occhi di una famiglia terrena e la sua privata percezione dell'universo. Il positivo e il negativo di una stessa realtà, che (incredibilmente) cristallizzano e moltiplicano il loro significato uno nella visione dell'altro.

Sempre in balia delle 'onde del destino'

Come per ogni film di Lars Von Trier che si rispetti, il giudizio unanime è qualcosa di inconcepibile. Filtrato attraverso la sensibilità di ciascuno spettatore, Melancholia può dare origine a incredibili sensazioni epifaniche oppure al netto rifiuto di chi si trovi di fronte a un film incomprensibile, lungi dall'essere compiuto. Le sensazioni coesistono non solo in Melancholia ma in tutta la filmografia di Von Trier, ma è per questo motivo che ogni spettatore in cuor suo già saprà come porsi, e con quale margine di giudizio, di fronte a questo film. Rimane comunque, quali che siano le posizioni di ognuno, da sottolineare che la fascinazione esercitata da Von Trier nell'analisi di un mondo anarchico e fortemente contaminato da impulsi negativi, unita a una regia sempre originale e insinuante caratterizzata dall'uso spregiudicato delle luci (e non solo), dal realismo ricercato nei molti movimenti di camera a mano, e dalla capacità di sedurre nelle trame dei suoi film sempre attori di primissimo livello (o, al contrario, di immaginare per loro ruoli che li vestano a pennello), resta una freccia pericolosa e dannatamente capace di colpire a segno, sempre disponibile all'imprevedibile arco dell'enigmatico Von Trier.

Melancholia Lars Von Trier è tornato. Un ouverture in pompa magna sulle note di Wagner apre la danza di morte di Melancholia, film sul nichilismo cosmico del regista danese che ha assuefatto il suo pubblico a tutto, ma di certo non all’indifferenza. E dunque ancora una volta, ostinati a non cedere al giogo della morte o stregati dalla malia della Folle originalità di Von Trier, non ci resta che osservare spaesati l’orbita irregolare percorsa da Melancholia e decidere infine se rimanere impassibili di fronte a tante, inutili circonvoluzioni o lasciarci stregare dal suo travolgente nichilismo, sottomesso alla massima che vuole la vita sulla terra cattiva ed attraversata da una fisiologica malinconia: in fondo anche la gioia non è che un momento di estemporanea armonia, sublimata dalla nostalgia della sua ‘finitezza’.

7

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