Recensione Marigold Hotel

Fuga epifanica in India per un gruppo di inglesi in 'retirement'

Recensione Marigold Hotel
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Dopo essersi misurato con le vicende sentimentali del Bardo di Stratford-upon-Avon (Shakespeare in Love) e quelle del capitano Corelli, l'inglese John Philip Madden aggiunge alla sua lista di film più o meno riusciti The Best Exotic Marigold Hotel (da noi solo Marigold Hotel). Adattamento di These Foolish Things, romanzo di Deborah Moggach, il film nasce come una classica commedia dall'umorismo british in cui la ‘contaminazione' indiana interviene a smorzare l'intemperanza e la rigidità inglese fornendo a un eterogeneo gruppo di pensionati inglesi il senso epifanico di una terza età che funga da giusto commiato. Pur solido dal punto di vista attoriale grazie alla presenza di un cast di veterani del cinema inglese (tra cui nomi come Judi Dench, Bill Nighy, Tom Wilkinson e Maggie Smith) il film di Madden soffre una sorta di bipolarismo, sospeso e indeciso tra l'adozione di un tono favolistico e il tema più serioso di una senilità che facendo fatica a trovare il suo spazio in occidente, tenta il riscatto nelle vie d'Oriente. Là dove The Millionaire aveva saputo centellinare gli ingredienti di un lento venire fuori dalla melma degli slum grazie al potere occidentale di format multimilionari, qui Madden tenta (invano) il processo inverso. E non riesce, perché a parte la straripante energia del coro attoriale, mancano gli equilibri di un giusto crescendo, e una regia capace di conferire alla storia un senso più ampio e meno semplicistico di una sbrigativa transizione indiana in grado (da sola) di ricondurre il tassello di ogni vita al posto giusto.

Destinazione India

Per niente allettati dalla prospettiva di una ‘vecchiaia' in terra inglese, in una sorta di confinamento generazionale tipico dell'usa-e-getta delle società occidentali, un gruppo di (fino a quel momento) sconosciuti anziani, decide di cedere al fastoso richiamo del Marigold Hotel, una struttura situata nel cuore del fiabesco stato del Rajasthan che (secondo i depliant) dovrebbe garantire agli anziani turisti stranieri un trattamento super-lusso della loro senilità. Ma una volta giunti sul posto, i ‘villeggianti' (ovvero un giudice sulle tracce del suo primo amore, una casalinga bisbetica, una coppia molto - poco - affiatata, due single alla disperata ricerca di compagnia, e una vedova col bisogno di fare chiarezza nel suo passato) verranno accolti all'interno di una struttura fatiscente che lascia sperare ben poco sul potere rinfrancante del luogo. Ma dalle polverose camere dell'hotel, ognuno degli ospiti (compreso il giovane gestore della struttura, con tanti sogni e pochi sostegni) intraprenderà la strada della propria salvezza o redenzione. L'idea dell'adattamento come rinascita in un luogo distante dalle proprie origini e dunque dal proprio ‘sentire' è resa da Madden in maniera troppo rapsodica perché susciti empatia. A fronte di una prima parte illustrativa del background dei personaggi in cui si gettano le basi ideali del viaggio, fa da contraltare un epilogo frettoloso in cui la quadratura (in positivo) del cerchio forza la mano (e certi dialoghi, in questo, danno il loro contributo) su una sequenza di eventi che non sono solo piuttosto telefonati, ma anche sensibilmente accelerati da una squilibrata consecutio narrativa. Poco fluido appare anche il modo con cui Madden affronta l'incontro/scontro tra l'imperante cultura britannica e quella (suddita) dell'ex colonia, infarcendo il film di un umorismo colmo di ridondanti stereotipi. Ed è quindi un peccato che tutto il potenziale tematico e attoriale del film sfumi in una favoletta di buonismo redentore di cui forse potevamo anche fare a meno.

Marigold Hotel Il regista inglese John Madden (Shakespeare in Love, Il mandolino del Capitano Corelli) mette in campo un cast di grandi attori inglesi (Judi Dench, Bill Nighy, Penelope Wilton, Dev Patel, Celia Imrie, Ronald Pickup, Tom Wilkinson, Maggie Smith) per parlare della chance di una senilità che sfugga al confinamento occidentale (ri)appropriandosi della serenità di spirito orientale. Una commedia in fondo gradevole ma sostanzialmente vuota, che sembra perdere quota con l’approssimarsi dell’epilogo, in un trionfo di ‘happy ending’ che mancano di un loro vissuto.

6

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