Recensione Mademoiselle

Dopo la parentesi americana di Stoker, Park Chan-Wook torna a raccontare, in Mademoiselle, la sua Corea nel passaggio tra tradizione e modernità, attraverso giochi di potere ed erotismo lussuosamente confezionati.

Recensione Mademoiselle
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Classe 1963, Park-Chan Wook è il simbolo della rinascita del cinema sudcoreano: artista a tutto tondo, teorico del cinema prima ancora che realizzatore, ha riportato la Corea del Sud davanti a (quasi) tutti i laureati del cinema internazionale per ben due volte al Festival di Cannes: La prima grazie a Oldboy nel 2004, la seconda con Thirst nel 2009. Ci riprova quest'anno con The Handmaid, ma non per questo sembra volersi ripetere: ancora una volta il regista sceglie la strada più difficile e sperimentale, decidendo di girare in costume per la prima volta e ambientando la sua pellicola negli anni '30, dove i giochi di potere e dominazione si intersecano con le strade del desiderio carnale. Al centro della vicenda Hideko, che dall'età di cinque anni è confinata in un castello dalla doppia anima che per lei non è altro che una prigione: a fare da carcerario è il suo ricchissimo zio, perverso maniaco dei libri e del lusso, che la chiude in una gabbia d'oro fino all'età adulta. Un incastro malato che vede pochi momenti di luce, fino all'arrivo della nuova dama di compagnia Sookee, croce e delizia della timida e chiusa Hideko. Tuttavia, nel gioco delle parti di Park Chan-Wook, niente è come sembra e nessuno è quello che dice di essere - né Hideko, né Sookee, né il ricco conte che vuole sedurre l'ereditiera con l'aiuto della domestica. Seguendo il racconto con una narrazione tripartita, il regista svela le maschere e le debolezze di ognuno arrivando ad inaspettate risoluzioni, che sfruttano il materiale iniziale (il libro di Sarah Waters) per raccontare un lato più nascosto della Corea, a cui il regista fa ritorno dopo la parentesi oltreoceano di Stoker.

Le passioni dell'uomo sono i mezzi di cui si serve la natura per i suoi scopi

I desideri sono la cosa più sporca che abbiamo, e si trasformano spesso in una trappola mortale: lo sa bene il regista coreano, che intorno ad essi costruisce un melodramma femminile in cui la brama di potere si mescola alla carnalità in una lotta continua - la stessa che molto spesso si trasforma nel fiammifero che accende la passione, come ha teorizzato il Marchese De Sade. Supremazia è bramosia, controllo è erotismo, potere è piacere. Elementi che in The Handmaid passano spesso da un personaggio all'altro, di sguardo in sguardo, di labbra in labbra. Il confine è labile, ma Park Chan-Wook vi cammina sopra come un funambolo, sfiorando senza mai cadere una messa in scena sfrenatamente lussuosa e manieristica, uno stile narrativo ambiguo e mai lineare, una poetica spesso spregiudicata. La confezione è di gran lusso e si esprime nei decori così come nella mano del regista, che cuce addosso al romanzo di Sarah Waters una scatola decorata finemente: all'interno non solo l'espressione omoerotica del controllo sull'altro e l'amore di due ragazze che creeranno una reciproca salvezza, ma anche una sottile critica ad una società dal tradizionalismo misogino, in cui la figura della donna era ridotta a bieca merce di scambio al fine di raggiungere alte posizioni sociali, o a oggetto ludico per l'intrattenimento di un club dedicato a soli uomini. In contrapposizione, Park Chan-Wook disegna un dittico feroce e fiero, che basta a se stesso ed umilia l'elemento maschile ritorcendo il suo gioco senza alcuna pietà. Una finestra verso il modernismo, che durante la colonizzazione giapponese della Corea aveva solo fatto capolino dall'ombra intorno ad una società ancora profondamente arcaica e classista.

Mademoiselle Dopo la parentesi americana di Stoker, Park Chan-Wook torna di nuovo a raccontare la sua Corea durante la colonizzaziona giapponese: lussuosa messa in scena e manieristica sceneggiatura nascondono dietro le loro broccate pieghe un gioco di potere ed erotismo, che pur incantando lo spettatore rende spesso difficile da seguire il filo principale dell'autore. Un film di meravigliosa estetica che tuttavia avrebbe necessitato di una narrativa più asciutta per arrivare ad un livello eccellente.

7

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