Recensione Love & Mercy

Bill Pohlad racconta in Love & mercy una parte della vita di Brian Wilson, fondatore della band dei Beach boys, alternando il periodo psichiatrico degli anni Ottanta a quello della lavorazione di Pet sounds, album del 1966.

Recensione Love & Mercy
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Conosciuta in tutto il mondo grazie a popolari hit del calibro di I get around e Fun fun fun, la band californiana dei Beach boys venne già raccontata nei lungometraggi televisivi Sogni d'estate la storia dei Beach boys di Michael Switzer e The Beach boys di Jeff Bleckner, rispettivamente datati 1989 e 2000.
Però, con il titolo preso in prestito dal pezzo che aprì nel 1988 il primo album solista di Brian Wilson, fondatore e leader del gruppo messo in piedi insieme ai fratelli Carl e Dennis, al cugino Mike Love e all'amico Al Jardine, Love & mercy non intende ripercorrere banalmente l'intera storia del quintetto dai periodi di maggiore successo alle immancabili fasi calante e di ripresa, in quanto il regista Bill Pohlad - produttore, tra l'altro, del film vincitore del premio Oscar 12 anni schiavo - precisa: "Non amo particolarmente i film biografici. Cercare di comprimere tutti i battiti e i frammenti di una vita in due ore era qualcosa che non mi interessava affatto. Volevo mostrare gli aspetti più veri e umani della vita di Brian Wilson, non il suo essere una celebrità. Il film vuole essere pertanto il ritratto di una persona vera. Quest'uomo ha vissuto molti eventi eccezionali, altri meno eccezionali, e per questo non era possibile approcciarsi alla sua storia nel modo più tradizionale".

Life of Brian

Infatti, tra una Don't worry baby e una Surfer girl, è soltanto durante i titoli di testa che si assiste agli anni delle canzoni a base di spiagge, belle ragazze ed onde da cavalcare, in quanto si passa immediatamente al decennio degli Ottanta per mostrare il protagonista che, incarnato da John Cusack, lascia già intuire la propria follia interiore nel momento in cui va ad acquistare un'automobile e conosce la sua futura seconda moglie: Melinda Ledbetter, con le fattezze della Elizabeth Banks del franchise Hunger games.
Decennio che non solo - già da tempo alle prese con abusi di droga - lo vede prigioniero dell'influenza da parte del diabolico terapista Eugene Landy magnificamente interpretato dal grandissimo Paul Giamatti, ma, girato in trentacinque millimetri, viene alternato alle immagini volutamente meno nitide - in quanto concepite per lo più in sedici millimetri - relative alla lunga ed estenuante lavorazione del capolavoro wilsoniano Pet sounds, registrato nel 1966 in seguito all'uscita di Rubber soul dei Beatles.
Lavorazione nel corso di cui è un eccellente Paul Dano a concedere anima e corpo al genio musicale tanto amato da Paul McCartney, in mezzo a sessioni di registrazione di classici e non solo quali God only knows, You still believe in me, Sloop John B e Caroline, no, ma anche liti con il tirannico padre Murry alias Bill Camp e accese discussioni con il già citato Love, qui impersonato da Jake Abel e che considera deprimente l'innovativo album in questione perché interessato, invece, a continuare a seguire la linea beachboysiana fatta di pezzi trasudanti estate e surf.
Man mano che la colonna sonora tira in ballo anche Nowhere to run di Martha & The Vandellas e You don't have to say you love me di Dusty Springfield e che ci si spinge fino all'elaborazione della storica Good vibrations e del maledetto Smile... testimoniando ancora una volta quanto la complessa e fragile personalità dell'immenso Brian possa risultare tra le più affascinanti da trasportare all'interno di un grande schermo, in quanto trasudante elementi capaci sì di spingere alla commozione il fan accanito, ma anche di regalare massicce dosi di emozioni al resto del pubblico.

Love & Mercy Sebbene la ricca colonna sonora includa, tra le altre, Surfin’ USA e In my room, il periodo in cui la band dei Beach boys cavalcò le classifiche grazie alle sue storiche hit infarcite di sole, belle ragazze e mare è relegato esclusivamente ai primissimi minuti di visione di Love & mercy di Bill Pohlad, in quanto l’intenzione delle circa due ore totali non è quella di apparire in qualità di biopic dei cinque ragazzotti californiani che la costituirono, bensì raccontare la non troppo rosea vita del leader e fondatore Brian Wilson alternando la metà degli anni Ottanta a quella dei Sessanta, quando si dedicò al capolavoro Pet sounds. Con un ottimo cast e abbondanti dosi di emozioni destinate a trapelare dal materiale profondamente umano destinato ad emergere dalla storia di uno dei più grandi geni della storia delle note musicali, ne viene fuori un coinvolgente elaborato talmente curato da conferire quasi l’impressione di trovarci dinanzi ad un documentario e che ci spinge a pensare quanto sia stata ingiusta la sua totale esclusione dai premi Oscar.

7

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