Recensione Le invasioni barbariche

Con Le invasioni barbariche, secondo capitolo della sua trilogia dell'esistenza, il regista canadese Denys Arcand firma un'opera scomoda e profonda che scava con lucidità nelle ipocrisie contemporanee.

Recensione Le invasioni barbariche
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Remy Girard, un professore di storia dai trascorsi libertini, si scopre affetto da un tumore incurabile, con aspettative di vita ridotte a massimo un paio di settimane. L'ex-moglie Louise chiede al figlio Sebastian, uomo d'affari da anni residente a Londra, di andare a trovare il padre (con il quale ha un rapporto turbolento) morente nel natio Canada. Scoperte le gravi condizioni di salute del genitore e nonostante qualche incertezza, Sebastian decide di radunare intorno all'uomo gli amici di una vita, in modo da rendere più sereno il suo trapasso. Inoltre paga funzionari e infermieri dell'ospedale affinché Remy abbia una stanza tutta per sé dove trascorrere gli ultimi giorni e si mette in contatto con l'amica d'infanzia Nathalie, dipendente dalla droga, affinché rifornisca il malato di dosi di eroina per alleviare i forti dolori dei quali è vittima. In questo commiato al mondo di una personalità così controversa e impulsiva, il gruppo di vecchi compagni avrà modo di ritrovare la sintonia della gioventù.

I nuovi barbari

Se con Il declino dell'impero americano (1987) Denys Arcand aveva scardinato molte delle ipocrisie vigenti nel mondo occidentale, sedici anni dopo il regista canadese torna sul luogo del delitto con Le invasioni barbariche, sequel diretto che riprende personaggi e figure già apprezzate nel precedente cult d'autore. Questa volta però l'idealista Rémy (sempre interpretato dall'efficace Rémy Gerard) si trova dinanzi alla morte e gli istinti da sognatore si sciolgono come neve al sole in una consapevolezza di come nessuna ideologia sia mai riuscita a cambiare il corso degli eventi, trovandosi nuovamente di fronte ad una realtà figlia dell'american dream. Un'opera controversa che ha suscitato non poche polemiche, soprattutto in Italia, in quanto dichiaratamente pro-eutanasia, che fa di un cinismo lucido e verboso un vero e proprio uncino per scardinare qualsiasi simulazione di sorta, religiosa e politica che sia, con riferimenti anche contemporanei, e non certo positivi, a leader come Berlusconi e Bush. Arcand opta per un registro ibrido in grado di coniugare con semplicità il dramma (intenso soprattutto nei venti minuti finali) e la commedia nera, infarcendo i numerosissimi dialoghi di battute talvolta feroci e altrove memori di una malinconica dolcezza, catturando con questa creatura dai due volti molti mali della società odierna. Dalla dipendenza dalla droga alla libertà sessuale, dall'inconsistenza di amori quantomai fasulli (teneramente amaro l'epilogo) alla consapevolezza della malattia, il film non si rivolge con falsa retorica ma sbatte le cose in faccia con un'onestà intellettuale, condivisibile o meno, che troppo spesso manca a produzioni omologhe. Interpretata magnificamente dal numeroso cast di interpreti (la splendida e dolente Marie-Josée Croze ha vinto il Premio come miglior attrice al Festival di Cannes), la sceneggiatura, anch'essa premiata alla kermesse francese, si fa viva e pulsante metafora di un mondo sempre più barbaro nella sua presunta evoluzione.

Le invasioni barbariche Quanto vale un'esistenza, e come porvi fine nel modo meno doloroso possibile? Denys Arcand prova a rispondere nel 2003 con il capitolo di mezzo della sua trilogia esistenzialista (dopo Il declino dell'impero americano e prima de L'età barbarica), film scomodo e tagliente che apre la via per discussioni e dibattiti etici e morali profondi. Le invasioni barbariche non si adagia nella retorica del dolore, controbattendo con parabole politiche, sociali e idealistiche che sfruttano le parole con arguzia e istintiva ferocia, concedendo il giusto spazio di tenue malinconia al percorso finale di un uomo prossimo alla morte.

7.5

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