Recensione La Quinta Stagione

La "primavera mancata" in un film d'autore

Recensione La Quinta Stagione
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“Cosa accadrebbe se non arrivasse la primavera? Dopo aver girato Khadak in Mongolia e Altiplano in Perù, abbiamo deciso di concludere la nostra trilogia nel luogo stesso dove viviamo, in Belgio. Ne La cinquième saison la natura prende il sopravvento in segno di protesta contro l'umanità. Questa situazione allarmante provoca l'implosione di una comunità. Scampate al naufragio, alcune anime riescono a fuggire. Il loro destino resta ignoto”.
Parole di Peter Brosens e Jessica Woodworth, i quali, per il loro terzo lungometraggio di finzione, subito dopo i titoli di testa partono dall’immagine di un uomo seduto dinanzi a un tavolo che chiede al gallo Fred di cantare, avendo dall’animale una inaspettata reazione.
Soltanto l’inizio di oltre un’ora e mezza di visione che vede un villaggio belga nelle Ardenne colpito da una misteriosa calamità, in quanto la primavera sembrerebbe rifiutarsi di arrivare.
Oltre un’ora e mezza di visione che, con il ciclo della natura sconvolto, si concentra sulla lotta attuata dai due adolescenti Alice e Thomas - rispettivamente con le fattezze di Aurélia Poirier e Django Schrevens - per dare un senso alla loro vita in un mondo che gli sta crollando intorno.

Il Belgio(rno) finisce

Lei, figlia di un produttore caseario, viene attirata per gioco da lui, chiuso in se stesso, in una cava dove assaporano per la prima volta il desiderio; mentre un apicoltore itinerante e il figlio disabile si uniscono agli abitanti del villaggio nei festeggiamenti della fine dell’inverno con il consueto falò annuale che, però, non vuole saperne di accendersi.
Da qui, con un’ambientazione e tematiche non troppo distanti da quelle che furono alla base di The wicker man (1973) di Robin Hardy, abbiamo lo scenario di un disastro annunciato attraverso una primavera con le api del citato apicoltore che scompaiono, i semi che non germogliano nei campi e le vacche che si rifiutano di dare latte; per poi passare a un’estate in cui, addirittura, comincia a nevicare.

Ma, sebbene l’insieme, cronaca della sparizione, possa essere visto come una sequela di “quadri della espirazione” volti ad accompagnare verso le porte dell’inferno e tratteggiati in qualità di stazioni di una via crucis pagana che conduce al Calvario della fine del mondo, Brosens e Woodworth, pur mettendo in piedi quello che potrebbe essere definito un horror collettivo e fuori dal tempo ma contemporaneo, sembrano interessati più a una certa “confezione autoriale” che al genere puro.
Non a caso, al di là del fatto che vengano tirati in ballo eventi reali come l’abuso dei fertilizzanti tossici, la crisi del latte e, appunto, la sparizione delle api, le loro fonti d’ispirazione vanno ricercate in Theo Angelopoulos, nel capolavoro del cinema ceco Marketa Lazarová (1967), nella musica di Georges Gurdjieff, Nick Cave, Johann Sebastian Bach e Dimitri Šostakovič e, soprattutto, nei dipinti di Bruegel, Goran Djurovic e Michaël Borremans.
Perché, in fin dei conti, sebbene il tutto si mostri sorretto in particolar modo dalla prova degli attori, è impossibile non notare una certa attenzione per la cura delle immagini; le quali, immerse in una grigia atmosfera rurale, sfoggiano costumi e colori che sembrano inevitabilmente rimandare a un grottesco cinema di tanti anni fa.

La Quinta Stagione Dal Belgio, una grottesca vicenda d’ambientazione rurale che, non priva di un certo sottofondo ironico, assume i connotati di favola horror man mano che i fotogrammi avanzano e, in particolar modo, nelle sequenze che tirano in ballo dei tizi mascherati. Ma lo svolgimento non è chiarissimo e i fiacchi ritmi di narrazione ci fanno apprezzare esclusivamente il fatto che il tutto, molto curato dal punto di vista visivo, duri soltanto poco più di novanta minuti.

6

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