Recensione La Pecora Nera

Ascanio Celestini in 'Le follie dei Favolosi anni '60'

Recensione La Pecora Nera
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Dopo essersi occupato di casi di mala società con vari spettacoli teatrali e due documentari (Senza Paura e Parole Sante), Ascanio Celestini, affabulatore dalla rara avis, scrittore, teatrante, e da qualche tempo ospite fisso nel salotto rosso della Dandini, realizza la sua prima opera di finzione, cominciando a far parlare di sé anche come regista. Questo suo primo lungometraggio, dal titolo La pecora nera (l'emarginato, l'ultimo della classe, la coda della società) già spettacolo teatrale e libro, realizzato grazie a una lunga indagine condotta all'interno di ospedali psichiatrici, è entrato in concorso all'ultimo Festival di Venezia, soffiando tra l'altro il ‘posto' a registi ben più accreditati, come il bolognese Pupi Avati.

I Favolosi Anni ’60

Nicola (Ascanio Celestini nella versione adulta) è nato nei "Favolosi anni '60", quelli del Cremino e del Sapore di sale e mare, per intenderci. Ma anche quelli in cui i cosiddetti manicomi ‘elettrici' ancora ospitavano tra le loro ordinate mura, persone sbrigativamente etichettate con il termine ‘pazze', alle quali era interdetto il re-inserimento in società. Quegli stessi anni in cui suddette istituzioni, strutturate e illuminate dall'elettricità che facevano correre per i corpi dei ‘malati', cercavano di ripristinare violentemente l'ordine nelle teste 'senza ordine' dei loro ospiti. Nicola ha trascorso i primi sette anni in compagnia della sua vecchia nonna ovarola (un'entità vecchia per principio, nata vecchia e con le calze grosse della farmacia), e qualche parente marziano, e i successivi 35 circondato da cancelli (proteggono l'istituto che protegge i matti) e luchetti, con la sola compagnia di una suora che fa le puzze e un amico, più o meno reale, che sogna le riviste di donne che leccano gli uomini, e abita con lui in quel ‘Condominio di Santi', o pazzi, che fanno i miracoli. Nel corso di queste numerose primavere (sempre uguali a sé stesse) le uniche distrazioni all'ordine coatto della vita da internato, sono state le quotidiane ‘spedizioni' al supermercato per fare la spesa, attività anch'essa governata da numerose regole: evitare le sottomarche, prendere sempre i prodotti retrostanti, arrivare in cassa e lasciare che la suora paghi (è lei che custodisce sogni e soldi). In una di queste consuete incursioni nel Regno dei cieli (il supermercato dove il direttore è Gesùcristo), Nicola ritroverà una sua vecchia (forse unica) fiamma delle elementari: tale Marinella (Maya Sansa), che lo rifiutò per non aver creduto a una sua bugia. La bella Marinella ora vende cialde e macchine del caffè in un angolo del supermercato, sfoderando luminosi sorrisi agli indolenti clienti che transitano davanti alla sua postazione, anche lei vittima sacrificale delle gerarchie sociali. Ma quel supermercato, che per un attimo sembra libertà ed evasione, non è altro che la proiezione di quello stesso mondo sfocato, straniante, diverso, che si è cercato di strozzare con l'ordine, il confinamento, ma che può da un momento all'altro tornare a esercitare la propria influenza, scatenando un vero putiferio emotivo (leggasi pazzia). A quel punto, spetta al deus ex machina ripristinare l'ordine e le regole: "Come ti faccio ti disfo".

Una folle poesia

Non è possibile rinchiudere in 90 minuti di film il lirismo evocativo, i paradossi e gli espedienti narrativi di Ascanio Celestini, così come non è facile catalogare o imprigionare le diversità mentali, costringendole ad un ordine che non appartiene loro, un parallelo che crea consistenza narrativa legando tra di loro le due grandi macrosequenze del film. Se nella prima (molto più filmica) la voce fuori campo ripercorre con ritmo sostenuto e uno stile originale (il narratore onnisciente che racconta il bambino), la sua infanzia tra pollai, cugini stronzi e prostitute marziane, segnata da sconfitte più che da vittorie (il costume da Tarzan rimpiazzato da quello del coniglio puzzolente si associa al rifiuto di Marinella), nella seconda è la mente oscura di Nicola a fare da protagonista, mischiando frammenti di un'esistenza turbata a nuove sensazioni di rinnovato turbamento interiore. Nicola è un personaggio complesso e affascinante, persosi tra i grovigli di un mondo ostile, che lo ha costretto a vedere cose che non esistono, a fuggire in una realtà parallela e invalicabile. La sua è una mente intricata dove realtà e paradosso sono le due facce di una stessa medaglia, alimentati dal ripetersi di mantra della mente in cui sembra essere racchiusa tutta l'essenza dell'infermità mentale (i cancelli, i cremini, i marziani, i pazzi, i santi e così via), riflesso più modesto di una paura più grande, quella umana del buio, dell'ignoto, di ciò che non è gestibile neanche con l'ordine. In questa seconda parte si fa più viva la presenza di Celestini teatrante e poeta, dei suoi giochi di parole fatti di assonanze, allegorie, filastrocche, e delle sue pungenti e talvolta feroci metafore. Qui più che il film in sé entra in gioco lo stile precipuo del cantastorie: magico o confuso, piacevole o straniante. Se l'opera filmica possiede originalità e qualche stranezza, il complesso narrativo sotteso ha un grande potere esegetico e una forte attualità, capace (per certi versi) di ammaliare lo spettatore, e confrontarsi con abissi umani di cui è sempre molto difficile parlare (più o meno linearmente).

La Pecora Nera Dopo due documentari, Ascanio Celestini approda anche alla regia di un film di finzione, che racconta attraverso il personaggio di Nicola, uomo smarrito dalle mille sfaccettature, la complessa realtà del ‘manicomio’, istituzione diffusa nei Favolosi anni ’60. Atipica opera filmica che si nutre di lirismo e poesia, La pecora nera si rivela un esperimento interessante, a metà strada tra il teatro e il cinema, e per questo un po’ slegata dal punto di vista prettamente filmico, che conferma nondimeno il talento di Celestini, in quanto narratore sofisticato e sempre attuale.

7

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