Recensione La bellezza del somaro

Recensione del terzo lungometraggio diretto da Sergio Castellitto

Recensione La bellezza del somaro
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A sei anni da Non ti muovere (2004), sua seconda prova registica dopo Libero burro (1999), l'attore romano Sergio Castellitto torna dietro la macchina da presa con La bellezza del somaro, co-sceneggiato dalla compagna Margaret Mazzantini e del quale è anche protagonista.
Infatti, nella pellicola Castellitto interpreta l'architetto Marcello Sinibaldi, il quale, sposato con la psicologa Marina alias Laura Morante, ha appena compiuto cinquant'anni e si trova a dover fare la conoscenza del nuovo fidanzatino della figlia diciassettenne Rosa, con le fattezze della Nina Torresi vista ne La strategia degli affetti (2009) di Dodo Fiori. Nuovo fidanzatino che si rivela essere il gentile ed affidabile settantenne Armando, cui concede anima e corpo Enzo Jannacci, che la ragazza presenta ai genitori durante il weekend del ponte dei morti nella casa di campagna in Toscana, dove questi ultimi si sono allegramente trasferiti per festeggiare insieme ai loro vecchi amici del liceo: il depresso manager Valentino e la moglie preside Raimonda, rispettivamente con i volti di Gianfelice Imparato ed Emanuela Grimalda, e la giornalista inviata di guerra Delfina alias Lidia Vitale, prima sposa del cardiologo recentemente separato Duccio, interpretato da Marco Giallini. Combriccola cui si aggiungono i giovani amici di Rosa, la sua nonna materna, nei cui panni troviamo la veterana Erika Blanc, e due pazienti di Marina, ovvero la burrosa animatrice d'infanzia Lory alias Barbora Bobulova e il persecutore ossessionato dall'idea della morte Ettore Maria, con le fattezze di Renato Marchetti.

Borghesi piccoli piccoli?

Quindi, con Lola Ponce impegnata a ricoprire il ruolo di una collega e amante di Marcello, quella che prende progressivamente forma è una commedia per raccontare la nostra confusa inadeguatezza, ma anche per ricordare la struggente nostalgia per la verità delle relazioni umane. O, almeno, avrebbe dovuto esserlo, perché, a partire da un certo egocentrismo vagamente morettiano sfoggiato dal solitamente lodevole Castellitto, il quale, ricordando in parte l'autore di Caro diario (1993), si cimenta anche - affiancato da Giallini e Imparato - in una esecuzione al karaoke di Una miniera dei New Trolls, non pochi sono i punti a sfavore di un'operazione che spinge immediatamente a chiederci che fine abbia fatto tutto il lirismo presente nella precedente (anche se sopravvalutata, bisogna ammetterlo), succitata pellicola dell'attore-regista, cui giovarono anche Gli amori di Toto Cutugno e Un senso di Vasco Rossi incluse nella colonna sonora.
Tra una Morante alle prese - tanto per cambiare - con il ruolo di moglie e madre nevrotica e Jannacci più patetico che poetico, "La patta dei pantaloni è come l'inconscio: non sai mai cosa ci trovi dentro" è soltanto una delle perle "regalateci" dalla sceneggiatura, che vorrebbe perfino suscitare risate accomunando Silvio Berlusconi al prosecco e Nicolas Sarkozy allo champagne.
Del resto, scandito da un montaggio decisamente mediocre, l'insieme non tarda ad incarnare le fattezze dell'ennesimo, ipocrita festival su celluloide del neoirrealismo tricolore, con questi proto-progressisti di sinistra che, tra un "Io credo che il desiderio sia dentro di noi, non credo nel caviale", un "Il futile a volte può essere utile" e un "Meglio farsi rovinare dall'amore che da Wall Street", vivono di cose semplici, come l'andare a mangiare in campagna... sì, ma nella casa con la piscina!
Personaggi talmente finti e falsi a cui difficilmente lo spettatore (soprattutto se intelligente) potrebbe credere, costretto anche a subirsi un odioso Giallini che sembra quasi la brutta copia del De Sica cafone dei cinepanettoni, preso oltretutto a sfoggiare "A me m'hanno rovinato i pompini: basta che una s'inginocchi e me la sposo".
Fino a convincerci che, dopo aver concluso la visione, potremmo quasi appoggiare ironicamente il pensiero di una delle protagoniste: "A volte penso che questo paese abbia bisogno di una dittatura".

La bellezza del somaro “E’ triste rubare le merendine”; “E perché, Berlusconi non è triste?”; “Che c’entra Berlusconi?”; “Berlusconi c’entra sempre”. Vi fa ridere questo scambio di battute? Se sì, La bellezza del somaro è forse il film che fa per voi, altrimenti, ciò che vi aspetta altro non è che l’ennesimo (e questa volta pure abbondantemente confuso) festival del neoirrealismo tricolore costruito su banale scontro generazionale, famiglie sinistroidi costituite da laureati lavoranti che si concedono il weekend nella bella casa di campagna, strilli isterici e immancabili canne di rito mentre si parla di vecchi e nuovi ideali. C’è bisogno di andare avanti?

3

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