Recensione La bella gente

A sei anni di distanza dalla sua realizzazione, il secondo lungometraggio diretto dal romano Ivano De Matteo arriva nei cinema per portare la sua critica nei confronti degli italiani del "vorrei ma... non faccio".

Recensione La bella gente
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Con un volto che ricorda quello di una giovane Ornella Muti, la bella Victoria Larchenko - vista, tra l'altro, nelle fiction televisive Il peccato e la vergogna e Le tre rose di Eva - aveva già lavorato al servizio del regista Ivano De Matteo in Ultimo stadio, suo lungometraggio d'esordio datato 2002 e cui seguì, sette anni dopo, proprio La bella gente, destinato, però, a vedere la luce delle sale cinematografiche soltanto a partire dal 27 Agosto 2015.
Una vicenda distributiva decisamente curiosa e che, di conseguenza, ci porta ad assistere ad un'opera che l'autore ha in realtà realizzato prima dell'ottimo Gli equilibristi e del deludente I nostri ragazzi, rispettivamente realizzati nel 2012 e nel 2014, ponendo l'attrice nei panni della prostituta russa Nadja, la cui triste esistenza prende improvvisamente un'inaspettata piega.
Perché, umiliata e picchiata da un tutt'altro che raccomandabile individuo lungo una stradina di campagna non troppo distante dalla casa in cui trascorrono i fine settimana l'architetto Alfredo e sua moglie psicologa Susanna, ovvero i veterani Antonio Catania e Monica Guerritore, viene notata dalla donna, talmente decisa a salvarla dalla vita del sesso a pagamento da spingere il marito a "rapirla" per portarla tra le loro mura, al sicuro.

Fuga per la Victoria

L'interessante avvio di oltre un'ora e mezza di visione che, con Elio Germano nel ruolo di Giulio, figlio della coppia, e Myriam Catania in quello della fidanzata Flaminia, mira a delineare i controsensi di un nucleo familiare sempre vissuto nell'agiatezza e con solidi riferimenti intellettuali, quindi difficilmente disposto a mettere a repentaglio tutto ciò che ha avuto in eredità e che ha costruito per rispettare le proprie convinzioni.
Oltre un'ora e mezza di visione che, forse eccessivamente tempestata di paesaggi da depliant turistico rurale ma sostenuta da un cast in ottima forma, pur rischiando in parte di cadere nella morsa degli stereotipi nel descrivere i due protagonisti in qualità di personaggi di sinistra sensibili e disposti ad aiutare il prossimo e i Fabrizio e Paola incarnati da Giorgio Gobbi e Iaia Forte come ricchi di destra razzisti e classisti, spinge fortunatamente a far ricredere lo spettatore quando si rivela una forte critica nei confronti di una società tricolore costituita da gente (la bella gente, appunto) portata in maniera particolare per sfornare tante parole e concretizzare pochi fatti (se non nessuno).
E, ulteriormente complici sia equivoci che indispensabili momenti volti all'ironia, possiamo parlare tranquillamente di un lavoro più riuscito del succitato interpretato nel 2014 da Alessandro Gassman e Giovanna Mezzogiorno, ma, in ogni caso, non privo di pecche, soprattutto dal punto di vista della sceneggiatura.
Del resto, se da un lato non si fatica ad intuire una pochezza di idee che finisce per rendere l'insieme - fornito di ultima inquadratura dopo i titoli di coda - talmente fiacco da fargli assumere i connotati di un cortometraggio forzatamente dilatato a pellicola per il cinema, dall'altro risulta impossibile non chiedersi che fine faccia il violento sfruttatore della ragazza, figura fondamentale che scompare senza motivo, però, dopo i primi minuti.

La bella gente “Mi sono sempre chiesto se nella nostra società esistano ancora classi sociali. Apparentemente no, apparentemente siamo solamente divisi tra chi ha i soldi e chi non ce li ha. Ma ognuno di noi comunica all’altro a che cerchia appartiene e, quasi per caso, passa tutta la vita circondandosi di gente della sua stessa ‘specie’. La bella gente è proprio questo. La sensazione di fastidio che ho provato nel leggere la sceneggiatura nasce, forse, dalla consapevolezza di far parte di questa storia come si fa parte di questa società pronta a far finta di nulla di fronte alle differenze e alle prime difficoltà”. Leggendo questa dichiarazione del regista Ivano De Matteo, possiamo tranquillamente affermare che il suo film del 2009 distribuito con sei anni di ritardo fornisca un’analisi critica decisamente interessante ed atipica nei confronti di una certa ipocrisia e della mancanza di volontà tipica degli italiani (di qualsiasi appartenenza politica). Peccato che la fiacchezza generale e non trascurabili pecche di script penalizzino il tutto, portandoci ancora una volta ad affermare che Gli equilibristi rimane il più riuscito lavoro dell’autore romano.

5.5

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