Recensione L'illusionista

Jacques Tati rivive attraverso il personaggio magico e malinconico de “L’Illusionista”

Recensione L'illusionista
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Nel 2003 Sylvain Chomet, regista francese con un solido curriculum nel mondo dell'animazione, veniva nominato all'Oscar (con ben due nomination) per il suo primo lungometraggio, Appuntamento a Belleville, un'opera d'animazione colta e raffinata, ma capace di ritrarre con estrema ferocia modelli e vizi dell'epoca moderna. A sette anni di distanza, Chomet torna sul grande schermo con un progetto ardito, scritto a suo tempo dall'indimenticato regista Jacques Tati (Mio zio) e mai affacciatosi sulla strada della produzione. Il film in questione è L'illusionista, storia che Tati scrisse tra il 1956 e il 1959 per sua figlia Sophie Tatischeff (o per la figlia illegittima) e che non riuscì mai realizzare per via dei numerosi vincoli affettivi che lo legavano a quel progetto, rendendolo troppo ‘serio' (e forse doloroso) perché il regista affrontasse il turbamento di una sua realizzazione. Dopo circa mezzo secolo di stand by, Sophie conosce Chomet grazie al successo della sua pluripremiata opera prima e decide di affidare al suo stile raffinato e provocatorio un progetto per lei tanto importante, che si sarebbe caricato dell'onere e dell'onore di riportare in vita Tati attraverso il bizzarro e toccante personaggio de L'illusionista, alter ego animato dello stesso regista francese.

È giunta mezzanotte, si spengono le luci...

Parigi, fine anni '50. Mentre ancora risuona nell'aria l'eco del vaudeville, un anziano intrattenitore, l'illusionista del titolo, si sente strappare via dal suo mondo, soppiantato dall'avvento di gelatinati animali da palcoscenico, ovvero disinibite Rock Star moderne che stanno di fatto prendendo nel cuore del pubblico pagante il posto dei vecchi e romantici numeri con cilindro e coniglio. Sfrattato dal teatro parigino, cercherà lavoro accontentandosi di animare goliardiche notti nei pub al suono di cornamusa o disinibite feste di qualche buontempone. Così di treno in treno, di carrozza in carrozza, giungerà prima a Londra e poi nella suggestiva e incontaminata cornice scozzese delle Ebridi, dove incontrerà Alice, una ragazzina timida e curiosa che rimarrà incantata dai suoi giochi di prestigio e lo seguirà fino ad Edimburgo (Praga nella sceneggiatura originale). Lì, in una capitale scozzese multicolore e cangiante, tra uno spettacolo in seconda serata e qualche lavoretto alternativo, i due impareranno a contare l'uno sull'altra, come un padre e una figlia. Ma le stagioni passano, la piccola Alice, orfana dei suoi vecchi vestiti che hanno lasciato il passo ad abiti sempre più raffinati, sta diventando una donna, e per l'illusionista è tempo di cambiare aria. Infine un nuovo treno e una malinconica pioggia giungeranno a inaugurare una nuova stagione di vita che richiama alla mente l'assenzio nostalgico de Il vecchio frack, simbolo del ripetersi di un'eterna mezzanotte della vita...

Nostalgic feelings

Sorprendente scoprire come, in un tempo in cui siamo bombardati da suoni, colori e mirabolanti tecnologie 3D, un cartone realizzato rigorosamente a mano, in 2D (che s'ispira alla grafica stupendamente imperfetta dai colori caldi e opachi di cartoni disneyani anni '60 come La carica dei 101 o Gli aristogatti), e praticamente muto (solo qualche battuta in francese e in uno strano ibrido anglo-gaelico), riesca a mantenere incollati gli occhi dello spettatore sullo schermo con molta più seduzione di opere coeve in linea con l'altisonante trend attuale. C'è qualcosa di realmente magico, da vero illusionista, nel modo in cui questi personaggi animati, espressione di desideri e nostalgie profonde, monopolizzano la scena con i loro semplici gesti, le loro ingenue caratterizzazioni o le loro familiari estraniazioni (il coniglio rabbioso, il clown depresso, il ventriloquo spaesato). Chomet dichiara di aver costruito il personaggio dell'illusionista cercando di riportare in vita la mimica corporale e lo straordinario tempo comico di Tati, riuscendo peraltro molto bene nel suo intento: l'illusionista sembra (ed è) una persona reale, che si muove timidamente in un mondo che sembra rinnegarlo, per poi trovare conforto negli occhi incantati di una ragazzina che diventerà il suo pubblico e per la quale lui diventerà padre, amico e mentore.

Da Appuntamento a Belleville a L’Illusionista

Se nel primo, premiatissimo, lungometraggio (Appuntamento a Belleville) Chomet utilizzava i suoi personaggi come simboli di una società stralunata, maligna, e per molti aspetti sfatta, in questo secondo film, che sembra incanalare tutta l'atmosfera comico-espressiva di Jacques Tati nelle movenze a un tempo impacciate e strabilianti dell'illusionista, è la gioiosa malinconia di un'amicizia (trovata e poi persa) tra un giovane vecchio e una matura bambina a farsi l'anima della narrazione. L'alternanza emotiva di un'esistenza che attraversa abbacinanti soli e lugubri piogge, grigie metropoli europee e crepuscolari isole scozzesi, poi accarezzata dallo sguardo puro e gioioso di una ragazzina smarrita, ma capace di illuminarsi davanti a un capotto e un paio di scarpe bianchi come la neve, segno di una nuova, improvvisa sofisticazione femminea. Sfatando il cliché secondo cui un'opera d'animazione è necessariamente dedicata a un pubblico bambino, questo film, sincero e maturo, si rivolge a un pubblico attento e sensibile, disposto a cogliere le raffinatezze stilistiche di un ritorno all'imperfezione audiovisiva che rispecchia molto più verosimilmente l'espressione multitonale della vita. Un simbolismo che si fa concreto sul fare della sera, quando immersi in un mare di ombrelli sotto una pioggia battente, ci si lascia andare ai riflessi e ai ricordi di una stagione che se ne va, percorrendo il tortuoso binario della vita...

L'illusionniste Attingendo e restituendo linfa, dopo quasi mezzo secolo, a una sceneggiatura dell’indimenticato Jacques Tati, Sylvain Chomet (regista ampiamente affermato nel campo dell’animazione grazie al suo magnifico Appuntamento a Belleville), confeziona un piccolo gioiello d’animazione 2D come non se ne vedevano da tempo, e come forse se ne vedranno sempre meno. Fotografia imperfetta, assenza di dialoghi, e l’atmosfera candida di cartoni disneyani anni ’60, L’Illusionista (il film alla stregua del suo protagonista) riporta in vita non solo la comicità sgraziata di Jacques Tati, ma anche un’intera epoca di animazione che sembra esser stata sbrigativamente soppiantata dall’invasione di roboanti e multiformi produzioni, tracciando un mesto parallelo con l'illusionista e il suo cilindro magico.

8.5

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