Recensione L'estate d'inverno

L'interessante opera di Davide Sibaldi parla di caldi affetti racchiusi in corpi freddi

Recensione L'estate d'inverno
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Non capita tutti i giorni (a dire il vero quasi mai) che un diciannovenne, appena diplomatosi, scriva una sceneggiatura destinata ad arrivare sul tavolo di un produttore illuminato, pronto a rischiare di produrre l'opera di un esordiente a metà tra l'estemporaneità teatrale e il realismo claustrofobico dei precetti del Dogma. A Davide Sibaldi è accaduto. E così, dopo aver fatto girare il suo film per i festival di tutto il mondo, riscuotendo peraltro numerosi successi, l'oramai ventiduenne regista è pronto a far visionare la sua opera anche alle platee dei non addetti ai lavori, grazie allo sforzo produttivo di due giovani produttori milanesi: Enzo Coluccio ed Egidio Artaria.

Un’ora sola

In una tempestosa notte alla periferia di Copenaghen, il diciannovenne Christian (Fausto Cabra) e la trentottenne prostituta Lulù (la bravissima Pia Lanciotti) sono nella confortevole camera di un motel e hanno appena consumato la loro ‘notte' insieme. Lei si rimette in ordine il trucco ed è pronta a fuggire verso il suo prossimo cliente, un'ombra nella ostile notte danese, ma Christian le chiede di restare ancora, solo un'ora, per parlare. Dapprima turbata da una così invadente richiesta comunicativa (si sa che quando si resta a parlare con i clienti succedono sempre cose strane), Lulù finirà poi per cedere alla richiesta di Christian, non senza prima essersi assicurata una giusta ricompensa in denaro. Un'ora è sempre un'ora, dopo tutto. La loro conversazione, inizialmente ostacolata dalla cerniera emotiva di cui sono prigionieri, e attraversata a tratti da scambi violenti, comincerà a scavare nei rispettivi passati per riportare a galla vecchi e nuovi fantasmi che sembrano tenere in pugno queste due fragili anime allo sbando. Lungo i sessanta minuti di quella che appare a tutti gli effetti come una seduta di psicanalisi con due terapeuti e due pazienti, che di tanto in tanto si scambiano equilibratamente i ruoli, farà capolino un circolo vizioso di abbandoni che ha segnato le loro vite e sembra ora accomunarle: lei ha abbandonato suo figlio all'età di quattro anni mentre lui è stato abbandonato dalla madre quindici anni prima. Trauma, odio, paure inconfessabili. La lenta, o veloce, presa di coscienza del proprio io arriverà dunque attraverso la vivisezione di quello dell'altro, sempre più svestito delle proprie chiusure mentali. Passati solcati dalle stesse ombre e presenti offuscati dalla stessa smania di fuga verso un domani malato, ancora frutto di quel passato irrisolto.

Tra realismo teatrale ed estetica Dogma

Opera cinematografica per forma, questo film è di fatto molto più vicino all'estemporaneità teatrale: tempi filmici che corrispondono ai tempi reali, quasi una sola location, solo due attori (bravissimi), e pochissimi elementi visivi. La location-camera diventa quasi un terzo protagonista, forse l'unico a suo agio, capace di placare lo scontro tra i due e riportarli a una sorta di equilibrio, mentre la luce, in netto contrasto tra il giallo del calore interno e il nero screziato del mondo esterno, esprime il dualismo emotivo irrisolto, espresso dall'accostamento delle due stagioni opposte del titolo. L'estate d'inverno, il luogo dove le vite dei due protagonisti hanno finito per chiudersi seguendo il processo inverso della vita, quello di chiusura al mondo. Un luogo dove sentirsi a proprio agio, scevri dalla paura di vivere, e forse di realizzare i propri sogni. E man mano che cadono maschere, trucchi e parrucche indossate per simulare sé stessi, si scoprono le insanabili cicatrici del cuore, quelle che non si vedono, ma che ciò nonostante rappresentano l'essenza di un'anima. Le imperfezioni che rendono un'esistenza interessante, viva. L'opera è inoltre permeata da un realismo scenico che si avvicina, seppur in modo molto lieve, all'estetica Dogma, creando un legame con lo stesso Lars Von Trier che si esplica non solo attraverso l'ambientazione, la stessa Copenaghen del regista danese, ma anche attraverso l'inabissamento psicologico dei due protagonisti nei meandri dei loro turbamenti (che qui rimangono sempre fuori campo, solo accennati). 

Nonostante siano evidenti diversi pregi in questa opera prima di un giovanissimo regista, volitivo e dalle idee molto chiare, supportato da un duo di attori (provenienti dal Piccolo Teatro di Milano) davvero notevoli e dall'ottimo montaggio di Rita Rossi, non manca però qualche neo (dialoghi interessanti ma un po' ridondanti, un finale aperto e per certi versi banale che spezza l'impianto drammatico, una colonna sonora a tratti un po' invadente). Piccole imperfezioni che, vista la giovane età del regista, rendono il lavoro forse ancora più meritevole d'attenzione.


L'estate d'inverno Dopo tre anni di attesa, il giovanissimo Davide Sibaldi porta sul grande schermo la sua opera prima L’estate d’inverno, già premiata all'European Indipendent Film Festival e al Chicago Lake County Film Festival. Con una forte impronta teatrale e un vago richiamo all’estetica Dogma, nonostante qualche imperfezione narrativa, questo film dimostra come una buona idea, ben sviluppata ed esplorata, può diventare un buon prodotto cinematografico, anche con un piccolo budget a disposizione. Dimostra inoltre che il teatro forma attori con la A maiuscola, mediamente più temprati dei loro colleghi del cinema.

6.5

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