Recensione L'arbitro

Paolo Zucca racconta il campionato di calcio più sgangherato di sempre

Recensione L'arbitro
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L’arbitro è solo, l’allenatore è cieco, ma l’amore no.
Con le fattezze dell’Alessio Di Clemente delle serie televisive Incantesimo e Capri, Brai è l’arrogante fazendero che, padrone delle campagne, guida il Montecrastu, squadra di calcio abituata ad umiliare ogni anno l’Atletico Pabarile, ovvero la più scarsa della terza categoria sarda... fino al ritorno in paese del giovane emigrato Matzuzi alias Jacopo Cullin, il quale, novello fuoriclasse, rivoluziona gli equilibri del campionato permettendo al gruppetto di perdenti di vincere una partita dopo l’altra.
E, mentre quest’ultimo riesce a fare breccia nel cuore di Miranda, interpretata da Geppi Cucciari e figlia dell’allenatore non vedente Prospero, cui concede anima e corpo il cabarettista Benito Urgu, ad alternarsi con le vicende delle due squadre sono da un lato la sottotrama di due cugini calciatori del Montecrastu coinvolti in una faida legata ai codici arcaici della pastorizia, dall’altro l’ascesa professionale di Cruciani, ambizioso arbitro ai massimi livelli internazionali con il volto di Stefano Accorsi.
Arbitro che finisce per lasciarsi coinvolgere in una vicenda di corruzione destinata a portarlo in un batter d’occhio dalle stelle alle stalle, in quanto colto in flagrante ed esiliato nella terza categoria sarda.

Il corto di Montecrastu

Quindi, al di là di Marco Messeri e di Francesco Pannofino, anch’egli coinvolto nei panni di un arbitro, sono soprattutto personaggi noti del piccolo schermo a popolare i circa novanta minuti che costituiscono il lungometraggio d’esordio del sardo classe 1972 Paolo Zucca, evoluzione del suo omonimo short vincitore nel 2009 del David di Donatello e del Premio Speciale della Giuria a Clermont-Ferrand, il più importante festival del cortometraggio in Europa.
Esordio di cui osserva: “Una delle strade percorse nella mia ricerca estetica è quella della commistione dei toni e dei generi cinematografici. Il tono prevalente è quello comico e leggero, ma ho scelto di contrappuntarlo con delle tinte più cupe, per esempio in alcune delle tappe del percorso che porterà l’arbitro internazionale Cruciani alla ‘dannazione’ professionale, oppure in un’esile sottotrama legata ai codici ancestrali del mondo pastorale della Sardegna”.
E, in effetti, man mano che i fotogrammi in bianco e nero scorrono non si fatica ad avvertire un certo retrogusto particolarmente amaro, ma, a dire il vero, tra dialetto dominante e qualche riuscita battuta, le occasioni per spingere lo spettatore a sprofondare in sane risate non sembrano essere molte.
In mezzo al mucchio, citiamo la sequenza in cui vengono tirate in ballo conversazioni sul calcio durante lo svolgimento di un funerale, la quale, se vogliamo, non solo accentua il tono grottesco dell’operazione, ma contribuisce a conferire quasi i connotati di un prodotto di genere d’emulazione iberica ad un insieme che, caratterizzato, comunque, da una regia non disprezzabile, rimane guardabile e nulla più.

L'arbitro Un arbitro internazionale, un allenatore cieco, una bisbetica indomita, un pastore vendicativo e un improbabile goleador condividono le sorti del campionato di calcio più sgangherato del mondo. Si basa su questi elementi il lungometraggio d’esordio di Paolo Zucca che, evoluzione del suo omonimo short aggiudicatosi il David di Donatello nel 2009, sfrutta una serie di volti noti prevalentemente legati alla televisione per raccontare in bianco e nero la realtà calcistica della provincia sarda. Una realtà che rappresenta attraverso toni piuttosto grotteschi e tentando, probabilmente, di fornire all’operazione un look generale non distante da quello che caratterizza determinate cinematografie ironiche europee, a partire da quella spagnola. Ma, mentre comicità e amarezza si alternano, si rimane, in ogni caso, dalle parti della commedia infamia e senza lode.

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