Recensione L'Apollonide

Un film che mescola erotismo e dramma, senza essere nessuna delle due cose

Recensione L'Apollonide
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"La prostituta è per la donna, quello che il criminale è per l'uomo. Si può osservare una diminuzione del diametro dell'encefalo di numerosi millimetri, che si spiega con il fatto che le prostitute hanno teste con diametro insufficiente. Ne deriva un diminuzione del contenuto e una notevole diversità nella quantità di materia grigia, come anche un indebolimento della loro intelligenza e la loro anormalità psichica. Lo spirito ottuso di alcune, e in altre, l'abbrutimento più completo, raggiunge in alcune di loro uno stato vicino all'idiozia.”

Si affida allo "Studio antropometrico di prostitute e ladri" di Pauline Tarnowsky, Bertrand Bonello, per ritrarre le (apparenti) protagoniste del suo quinto lungometraggio, vincitore del Cesar 2012 per i migliori costumi e candidato in altre sei categorie, quattro delle quali tecniche (dove un eventuale successo sarebbe stato tutt’altro che ingiusto, dato l’elevato tasso qualitativo dell’opera in tal senso).
Ma il regista non si professa maestro dell’erotismo e non cerca in Walerian Borowczyk e gli altri grandi esponenti dell’eros “di rottura” 70s i propri fari. È una regia geometrica, architettonica, matematica, quella di Bonello, dove l’unico protagonista possibile non è una delle professioniste del sesso, né il loro corpo, bensì il luogo.

L’Apollonide, casa chiusa della Parigi d’inizio ‘900, è la madre che Bonello studia e osanna in ogni suo anfratto, ogni suo barocco e sfavillante dettaglio, liquido amniotico che ospita corpi, merce di scambio che per tornare ad esser persone devono continuamente fare i conti con la verghiana roba, il vil denaro e con i clienti, esponenti di una società oscura e spersonalizzata (le maschere ricordano chiaramente Eyes Wide Shut).
Ma il film, così meticolosamente impegnato a descriversi, non riesce affatto a raccontarsi, a suscitare compassione, rimanendo fisso nella sua asettica, compiaciutissima mise en scene. Se insomma un film può permettersi il lusso di apparire analiticamente senza porgere comunicazione emozionale, allora L’Apollonide è grande cinema. In caso contrario, non lo è. Come le sue donne, il film è imprigionato.
Perché l’opera di Bonello, a differenza di recenti pellicole a cui può essere accostata (si pensi ad esempio a Sleeping Beauty di Julia Leigh, che ritrae l’”iniziazione” della preraffaellita Emily Browning con rimarchevole vis umana; oppure, sebbene sostanzialmente diverso, a The Girlfriend Experience di Soderbergh, dove i dialoghi e l’animo quasi godardiani di Sasha Grey si collocano come perfetto affresco umano degli Stati Uniti della crisi globale) non fa altro che mostrarsi, senza saper dire nulla delle sue protagoniste, tra le quali figura anche l’italiana Jasmine Trinca.
È una compassione fragile, sterile, che culmina con l’ormai stantio cliché della puttana santa che piange sperma (la donna che ride, omaggio a Conrad Veidt, notizia per i fan del compianto Heath Ledger), consapevolezza di essere vuoto contenitore di piacere altrui, figlia di una madre, l’Apollonide, che sa solo cullare prigioniere, limbo senza via di uscita (salvo una rapida scena bucolica e il finale, il film si svolge nella sua interezza all’interno della casa chiusa, contribuendo a un forte climax claustrofobico).
Le due ore tra i corridoi della prigione del piacere scorrono con estrema lentezza e solo ad uno spettatore appassionato a tanta immobile e sterile bellezza il film può risultare un tour emozionante.

L'Apollonide L’Apollonide è un film che mescola erotismo e dramma senza essere nessuna delle due cose: troppo gelido per essere interessato all’atto sessuale nudo e crudo, troppo fossilizzato per analizzare ciò che suggerisce.

5

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