Recensione Juste la fin du monde

Dopo il successo di Mommy, Xavier Dolan cambia passo, si ossessiona dietro i suoi personaggi e non lascia via di scampo: Juste la Fin du Monde è un film duro da accettare, ma stilisticamente più che notevole.

Recensione Juste la fin du monde
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Xavier Dolan ha ventisette anni, e ha la macchina da presa in mano da quando ne ha diciannove. Sembra essere nato con gli occhi dietro l'obiettivo e non riesce a fare altro, come un compositore con una costante melodia nella mente. Gioca, sperimenta, racconta ambienti familiari e soffocanti conversazioni ridondanti dai tempi di I killed my mother, fino a sublimare anima e corpo in Mommy, grido disperato di liberazione che l'anno scorso aveva spaccato i cuori della croisette, delle sale cinematografiche, di chiunque ci abbia poggiato gli occhi sopra. Con il peso di un Gran Premio della Giuria in ex aequo con Jean Luc Godard, il ragazzo canadese con il sorriso sghembo e la testa piena di immagini e parole è tornato di nuovo al Festival di Cannes, di nuovo in concorso. Pronto, o forse non tanto, a confrontarsi con un pubblico che lo aveva incensato e ora non aspettava altro che un nuovo capolavoro, un nuovo Mommy: al suo posto Xavier Dolan regala in dono Juste la Fin du Monde, davanti al quale si arriva con il cuore gonfio di speranze e si esce con il respiro affannato e lo stomaco chiuso. Mommy è un grido di libertà verso la vita, ti stravolge e infine ti libera, lasciandoti a correre verso la luce. Juste la Fin du Monde ti invita in casa con una famiglia disfunzionale, ti lascia incapace di parlare, di esprimerti, di respirare. Ti inchioda in un fiume di verbosità e di sguardi, ti soffoca di primi piani, non ti permette di sorridere e non consente di volare via. Ti lascia lì, esterrefatto ed esanime, come alla fine di una battaglia particolarmente dolorosa con te stesso che non sempre si riesce a vincere, sempre che si abbia davvero il coraggio di combatterla e non girare lo sguardo dall'altra parte.

Parole, poi parole, poi ancora parole. E il niente intorno

A farci da Virgilio verso questa discesa all'inferno è Louis (Gaspard Ulliel) che parte con le mani davanti agli occhi, alla cieca, la speranza di poter essere il maestro della sua stessa vita e prendere in mano un'ultima situazione - dire alla sua famiglia che sta per morire. Arriva sull'uscio di casa dopo dodici anni di assenza e un viaggio brevissimo, più breve del tempo che impiegano la madre Martine (Nathalie Baye) e i fratelli Antoine (Vincent Cassel) e Suzanne (Léa Seydoux) per farlo entrare in casa. Louis rimane sospeso sull'uscio - un po' dentro e un po' fuori - fin dal primo incontro, a disagio;

travolto da una madre che lo ama preparando salsine e laccandosi le unghie, da un fratello maggiore che non riesce ad agire ma solo a reagire bruscamente, da una sorella che in dodici anni di assenza non ha mai visto, a cui ha fatto conoscere solo le cartoline che le ha scritto. "Due o tre parole, e il sorriso". Questo è quello che riesce a comunicare Louis alla sua famiglia, costantemente respinto da un vomito incessante di parole, ripicche, delusioni e rancori che si riversano sulle sue silenziose spalle. Non riesce a nascondersi solo agli occhi della cognata Catherine (Marion Cotillard) che riesce a rubargli silenziose verità fatte di sguardi e comprensioni - lei che è l'unica esterna alla famiglia, mai completamente a suo agio, travolta dal caos familiare; eppure, forse per questo, riesce davvero a vedere il Louis che gli altri non riescono, non vogliono, vedere.

Da qualche parte, già da qualche tempo

Xavier Dolan sporca i suoi personaggi con la grana della pellicola e li incastra in primi piani spesso soffocanti, che non possono mentire. La focale è sempre strettissima, il contorno non conta e nulla è mai davvero a fuoco né sullo schermo né nella mente dei protagonisti, sospesi "da qualche parte, già da qualche tempo". Gli occhi fanno tutto il lavoro, gli sguardi sono l'ossessione di Xavier Dolan: quelli tormentati di Louis, quelli costantemente a disagio di Catherine, quelli pieni di rancore di Antoine. Per il resto i personaggi del regista si muovono senza muoversi, si guardano senza guardarsi, parlano senza riuscire a dirsi niente. In questa giostra fatta di urla contro il muro lo spettatore si trova incastrato e soffocato, spesso respinto come Louis dalla sua famiglia; trova i suoi unici sprazzi di vita nei momenti in cui la polvere scivola lontano da un materasso dimenticato, o una vecchia canzone passa alla radio. Il respiro è nel passato, la morte è nel futuro: al presente non resta che esistere, sospeso nel tempo, in costante bilico tra un fendente e l'altro. Lo spettatore ha una scelta: può guardare tutto questo dall'esterno oppure superare l'uscio della porta, sedersi sul divano e vivere l'esperienza di Louis, incassando i colpi duri e bellissimi di Xavier Dolan uno dopo l'altro. La prima è la più facile, la seconda regala il vuoto della perdita, il dolore dell'assenza, la voglia di un abbraccio e una battaglia persa. Ma regala soprattutto l'esperienza, il vero impagabile dono di un cinema come quello di Dolan, che riesce davvero a pochi e a ventisette anni forse non riesce a nessuno. Entrando in famiglia conosceremo il fallimento ma anche l'emozione: e poi tutti lontani, tutti via violentemente, tutti a respirare a fatica su un vecchio tappeto infeltrito. Nero, titoli di coda, e ad ognuno la propria morte. In fondo è solo la fine del mondo.

Juste la fin du monde Chi aveva amato la semplicità emotiva di Mommy e la facilità con cui è capace di trascinare le emozioni potrebbe trovarsi in difficoltà davanti a Juste la Fin du Monde: un film senza compromessi, onesto e magnifico dove la sceneggiatura non lascia scampo allo spettatore, lo soffoca in più punti e la regia amplifica la sensazione claustrofobica propria anche del protagonista Louis (Gaspard Ulliel). Una pellicola da combattimento con se stessi, che ci pone davanti alla scelta di ignorarlo e considerarlo mediocre o provare ad entrare nell'incubo e farsi male, ma uscire con nel cuore un'esperienza indimenticabile.

8

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