Recensione In the Name of the King

Ancora Uwe Boll. Ancora videogiochi. Ancora trash.

Recensione In the Name of the King
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Boll, l'inarrestabile

Nonostante i flop commerciali, le forti critiche del pubblico e le petizioni degli stessi contro l'inutile dispiegamento delle sue energie nell'ambito cinematografico, Uwe Boll non accenna ad arrestare la sua corsa produttiva e annuncia BloodRayne 3.
Tratto da un videogioco sviluppato presso i Gas Powered Games e pubblicato da Microsoft nel 2002, In the Name of the King è probabilmente l'adattamento più attinente in termini di atmosfera e narrazione di tutta la sua filmografia. E non che questo sia un fatto di cui vantarsi: l'originale storyline di Dungeon Siege su Pc serviva quasi esclusivamente a creare il giusto contesto per motivare gli scontri su schermo. Un gioco di ruolo incapace di andare oltre il mero divertimento; simile, ma solo nell'approccio ludico, al ben più illustre Diablo. Il film, senza sorprendere, riesce a malapena a coinvolgere con la spettacolarità dell'azione, così da risultare annacquato e privo di sottotesti interpretativi.

L'anacronismo storico

La vita di Farmer (Jason Statham) sta per cambiare. Contadino combattivo e gran lavoratore, passa le sue giornate con la famiglia: Solana, una moglie bellissima (Claire Forlani) e Zeph, il figlio piccolo (Colin Ford). Purtroppo la sua tranquillità viene improvvisamente compromessa dall'arrivo a Stonebridge dei Krug, energumeni brutali e decerebrati, guidati con la magia da un pericoloso stregone. Gallian (Ray Liotta) ha come unico scopo attentare alla vita del Re (Burt Reynolds) così da mettere al suo posto il nipote (Matthew Lillard), svogliato e psicologicamente instabile seppur fedele al suo credo rivolto al potere assoluto. Durante l'attacco al villaggio, i Krug rapiscono Solana e uccidono il figlio. Sconvolto per l'accaduto, Farmer decide di vendicarsi e, assieme al suo mentore Norick (Ron Perlman) e suo cognato Bastian (Will Sanderson), si muove all'inseguimento dell'esercito Krug per liberare la moglie e sconfiggere Gallian. Anche grazie all'aiuto del mago del Re, Merick (John Rhys-Davies), Farmer avrà buone possibilità per mettere a tacere i rappresentanti del male e salvare al contempo il villaggio.

Fantasy di serie B

Non è sicuramente il peggior film del regista, eppure si inserisce perfettamente nella sua tragica filmografia, tra l'assurdo BloodRayne e il censurato Seed - le cui medie su Imdb fanno venire i brividi (fulgido esempio di come il suo talento venga "apprezzato" anche dai non addetti ai lavori). Il dilemma legato alla sua insistente presenza sulle scene produttive internazionali è un vero e proprio rompicapo, perché si fatica a capire come faccia a trovare i fondi per i suoi film, puntualmente stroncati dalla critica e quasi sempre insuccessi clamorosi al botteghino. C'è chi specula sul fatto che venga considerato il peggiore regista professionale del mondo per instillare un certo grado di curiosità, chi invece prende per buona l'assurda legge tedesca secondo la quale un regista colpito da un flop commerciale debba avere diritto a particolari finanziamenti... Al di là delle possibili cause, la verità fa paura, e c'è chi teme per il futuro degli adattamenti dai videogiochi.
Costato la bellezza di 60 milioni di dollari, In the Name of the King rappresenta ciò che Il Signore degli Anelli poteva diventare senza quell'accurata impronta psicologica e sociologica infusa dalla brillante genialità crativa di Peter Jackson e della sua troupe. La storia inanella, sequenza dopo sequenza, una serie di banalità kitsch e pacchiane senza una minima coerenza logica. Farmer, da contadino apprensivo e amorevole si trasforma in un killer spietato e vendicativo: dove abbia preso lezioni di karate nel tardo Medioevo, rimane un mistero. Inoltre, non è molto chiaro il perché Gallian lo prenda di mira uccidendo prima il figlio e poi rapendo la moglie; e ancora, perché faccia rinchiudere nelle gabbie gli abitanti. A che scopo?
E' questo continuo “perché” rivolto all'interpretazione di eventi incomprensibili a martellare la mente: crea confusione e indispettisce, situazione peggiorata da un montaggio a casaccio e dalla colonna sonora power metal invasiva - firmata da Blind Guardian e Threshold, questi ultimi autori del singolo “Pilot in the Sky of Dreams” utilizzato come tema principale del film. Certo, rimangono inquadrature dinamiche negli scontri ravvicinati, effetti speciali convincenti - a patto di chiudere un occhio sui fintissimi primi piani - e un cast di volti noti, ma se il loro apporto alla causa è catastrofico, l'intero progetto perde di credibilità. Peccato non trovare in definitiva della sana autoironia come in Postal: almeno nella commedia, Uwe Boll ha dimostrato di saper raggiungere lo scopo.

In the Name of the King Come già curiosamente ipotizzato da alcuni giornalisti americani, immaginate una versione de Il Signore degli Anelli diretta da Ed Wood quaranta anni fa e avrete un'immagine piuttosto chiara del risultato raggiunto da Uwe Boll. Senza voler screditare eccessivamente un regista di cui nessuno riesce a parlar bene, In the Name of the King è suo malgrado indifendibile su quasi tutti i punti di vista. Mettendo da parte alcune buone coreografie e un'impronta fantasy con del potenziale, rimangono tante domande irrisolte e un fastidioso senso di vuoto. Se Boll dovesse continuare su questa strada, a pagarne le conseguenze indirette saranno i videogiochi e, soprattutto, i videogiocatori. Solo per gli amanti dei B-movie.

4

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